Il conferenziere ha innanzitutto tracciato una sintetica cronistoria degli studi sull'influenza della letteratura e della cultura arabo-islamica sulle opere occidentali, in particolare su quelle dantesche. La trattazione ha preso le mosse da La escatologia musulmana en la Divina Comedia (trad. it. Dante e L’Islam, Parma 1994) di M. A. Palacios, pubblicato nel 1919, ove l'arabista spagnolo, studiando le varie versioni delle narrazioni del viaggio notturno a Gerusalemme e dell'ascensione ai cieli di Muhammad, ne evidenziava i punti di contatto con l'itinerario dantesco nei tre regni dell'Aldilà. Particolari somiglianze il Palacios rilevava fra la Divina Commedia e L'alchimia della felicità (lungo capitolo della monumentale opera Le rivelazioni meccane, in cui Ibn 'Arabî ci presenta un'ascesa ai cieli ad imitazione del Profeta di due figure, un filosofo e un mistico) e più in generale particolari affinità fra i due autori, il cristiano e l’islamico. L'opera del Palacios, che andava oltre la segnalazione di mere analogie' ed apertamente sosteneva la possibilità di una conoscenza da parte di Dante dei suddetti lavori arabo-islamici e quindi di una influenza di questi ultimi sulla sua opera, suscitò fra gli studiosi occidentali, con poche eccezioni, delle reazioni di scandalo, tanto che il Palacios stesso corredò una successiva edizione (1943) dell'Escatologia di un’appendice intitolata Historia y critica de una polemica, in cui enumerava e confutava i numerosi attacchi ricevuti. Meddeb ha poi ricordato che nel 1949 le congetture del Palacios trovarono un potente sostegno nella pubblicazione dell'opera di Enrico Cerulli Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, ove si dava ampio conto della scoperta delle traduzioni latina, francese e castigliana, elaborate nel "laboratorio" interculturale e interconfessionale di Alfonso X il Savio, di un testo arabo (peraltro andato perduto) sull'ascensione di Muhammad. Tali traduzioni potevano costituire la prova materiale, l'anello mancante alle ipotesi del Palacios sulla possibilità che Dante avesse conoscenza diretta di quella letteratura, e l'avesse integrata all'interno del suo progetto poetico. Negli anni successivi gli studi si andarono orientando sempre più in questa direzione, dal libro del Cerulli Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente (1972) fino al recentissimo volume di Daniela Boccassini Il volo della mente. Falconeria e Sofia nel mondo mediterraneo: Islam, Federico II, Dante (2003). Venendo quindi alla parte centrale della sua trattazione, il conferenziere ha dichiarato che le differenze rilevabili tra Ibn ‘Arabî e Dante sono perlopiù di superficie, mentre il nucleo interno delle loro opere presenta tratti comuni, ed ha supportato questa affermazione passando all'analisi della Vita Nuova di Dante e dell'Interprete delle Passioni di Ibn 'Arabî, un'analisi condotta col rigore dello studioso ma ancor più col partecipe entusiasmo di chi è poeta in proprio, e trae da queste opere e questi autori quotidiana ispirazione alla propria riflessione e alla propria poesia. Con la Vita Nuova e L'Interprete delle Passioni Dante e Ibn 'Arabî scrivono, traendo entrambi spunto dalla propria biografia ideale se non reale, dei prosimetri nella cui cui parte in prosa diventano esegeti di se stessi coinvolgendo l'intera cultura dei loro tempi (Ibn 'Arabî muore venticinque anni prima della nascita di Dante) ed ambienti, facendosene al contempo innovatori. Meddeb ha sottolineato fortemente gli aspetti della novità, della volontà fondatrice, persino della rottura, non disgiunti però, come si è detto, dalla capacità di mantenere il rapporto con i morti, ed ha osservato che non a caso autori quali Pound e Joice erano dantofili, e che sicuramente avrebbero apprezzato molto anche Ibn 'Arabî, se solo l'avessero conosciuto.
La protagonista dell'opera di Ibn 'Arabì si chiama Nizam, Armonia, quell'Armonia Mundi da cui traspare il Volto del Creatore; analogamente il nome della donna di Dante è Beatrice, colei che dando accesso alla visione beatifica è "scala al Fattore". La stessa espressione "Fedeli d'Amore", ha rilevato Meddeb, pare essere il calco di un'espressione araba frequentemente usata da Ibn Arabî.
Ma è nell'enfasi, addirittura nell'insistenza dei due autori sulla "novità" che secondo Meddeb risiede uno degli aspetti di maggiore analogia fra di essi. Nella Vita nuova ricorre continuamente il motivo della ricerca di una "nuova materia" per il canto (ad es. capitoli XVII e XXX), non meno che di una nuova forma: nel XLII ed ultimo capitolo infatti, andando ormai oltre i toni e gli schemi dell'amor cortese, Dante dichiara di avere l'intenzione di dire della propria donna ciò che mai era stato detto prima. Ebbene, tale ricerca del nuovo ricorre parimenti nell'Interprete delle Passioni: ivi Ibn Arabî parte dai temi e dagli stilemi della lirica amorosa preislamica per rinnovarli dall'interno e per far loro esprimere una trascendenza del tutto inedita, in cui il deserto diventa metafora della scrittura e l'assenza fisica della donna finisce per essere la condizione mediante la quale essa con più forza si manifesta presente allo spirito. In tutto L'Interprete esiste una tensione altissima fra ciò che può essere detto e ciò cui si può solo alludere: Ibn Arabî sa che non si può dire tutto e che, in fondo, il libro vero è l'archetipo custodito nella mente, di cui il libro che si scrive è una copia necessariamente sempre parziale; nondimeno, come avverrà poi anche per Dante, il suo impegno costante è quello non solo di attraversare determinate esperienze spirituali, ma di riportarne un'espressione letteraria il più possibile compiuta e adeguata.
Inoltre, ed infine, Meddeb ha sottolineato la frequenza e la rilevanza con cui il numero tre, cifra della Trinità, e il suo quadrato nove ricorrono in entrambe le opere. Nel capitolo XXIX della Vita Nuova significativamente Dante menziona il nove riferendosi ad un calcolo astronomico tipico della cultura araba; la Divina Commedia, poema della Trinità, consta di novantanove canti più uno, proprio come nell'islamismo i nomi divini sono novantanove più uno, il più alto e potente, segreto e impronunciabile. Anche Ibn Arabî, specialmente nella sua opera La Saggezza dei Profeti, indaga i misteri del ternario, e nell'Interpete ha versi quali il seguente: "L'Amato mio è trino, benché Uno, come tre sono i sensi di cui, programmaticamente, ogni suo verso è dotato. Le coincidenze rilevate fra le opere e gli autori oggetto dell'appassionata conferenza del professor Meddeb sono, se non definitivamente persuasive, altamente suggestive, e non possono sfuggire a chi li accosta, soprattutto in questi tempi che sono di resa dei conti in tanti campi, e che perciò possono esserlo anche in quello letterario: un campo non pacifico ma almeno per lo più incruento, e che può servire da base di partenza per intese più ampie.
Roberto Rossi Testa