ROBERTO ROSSI TESTA
INTRODUZIONE A
di Ibn `Arabî
Ibn
`Arabî è uno dei maestri spirituali dell'Islâm più citati ed al contempo meno
conosciuti, a causa della stravagante audacia delle sue dottrine e
dell'eccezionale osticità del linguaggio in cui furono espresse. Tali fattori
non sono di sicuro indipendenti: aprendo a caso una qualunque delle sue opere
si ha invariabilmente l'impressione di trovarsi di fronte a un messaggio
cifrato, contro il quale anche
l'esercizio più brillante ed assiduo della ragione ordinaria sembra destinato
ad infrangersi.
Tentare
di tradurre e (ancor più) interpretare Ibn `Arabî è dunque impresa disperata,
sempre, anche quando si disponga, come nella presente contingenza, di un'ottima
versione di appoggio. D'altra parte con lui talvolta capita, ed è il caso del
lavoro qui presentato, che, a dispetto delle difficoltà di ogni genere
costellanti la pagina, il senso generale si delinei con una certa evidenza; e
che anzi in quella voce, in principio così lontana ed estranea, a un tratto si
sentano accenti familiari, si
avverta come un'aria di casa... Si tratterà pure di un'illusione, ma è quanto
basta per sobbarcarsi alla fatica, ed accettare il rischio del cimento.
"Epistola
della riunione della creatura al proprio essere essenziale, attraverso
l'incontro con l'albero umano e con i quattro uccelli spirituali": ecco
come potrebbe tradursi, con qualche licenza, il titolo completo dell'opuscolo
che qui si propone (per la prima volta in versione italiana). Titolo, come si
vede, alquanto lungo e complesso, che da un lato ha il merito di dare immediata
contezza dell'argomento e del piano dell'opera, ma che dall'altro solleva fin
dalle prime righe problemi e questioni senza fine.
La
parola che si è tradotta con "riunione", ad esempio, è
"ittihâd", vocabolo che nell'arabo dei mistici designa il movimento
di ritorno della creatura verso la propria essenza ed origine; ritorno che
costituisce il primo e più importante compito spirituale degli uomini, tutti in
potenza Uomini Universali, ovvero specchi microcosmici del Macrocosmo. Ma su
questo concetto occorre la massima chiarezza, onde evitare di cadere in
fraintendimenti ed errori contro i quali Ibn `Arabî stesso mette in guardia
lungo il corso di tutta la sua opera.
Nel suo trattato maggiore, le Rivelazioni Meccane,(1) egli ci spiega: "L'ittihâd è il divenire una sola essenza da parte di due, quella del servo e quella del Signore; ora, non può darsi ittihâd che nell'ambito della quantità e della materia; e non si tratta che di uno stato [precario e transitorio]". Il secondo membro di tale proposizione limita e corregge severamente il primo: in questo modo Ibn `Arabî ci avverte che l'uomo è tenuto, sì, a mettersi in viaggio, ma non verso una illusoria unità di Creatore e creatura basata su di un "indiamento" in cui le le essenze si confondano, bensì verso una precisa consapevolezza, quella dell'Unità dell'Essere (tawhîd). Altrove, nelle stesse Rivelazioni Meccane,(2) il nostro autore toglie ogni spazio a eventuali dubbi residui: "L'unità appartiene a Dio solo, mentre il suo servo non può realizzare che l'unione. Non potendo costui concepirsi in sé, ma solamente in relazione all'Altro, giammai sarà in grado di aspirare l'aroma dell'unità".
Insomma,
per Ibn `Arabî l'unificazione è logicamente impossibile, ed oltretutto inutile:
la meta cui si pretenderebbe di giungere è già attinta da sempre, poiché
l'essenza di tutti gli esseri è unica, ed è precisamente quella dell'Essere
Puro; esiste in effetti una virtuale identità fra ogni essere e l'Essere
supremo, dal quale nulla può essere separato sotto il profilo dell'essenza.
Basta rendersene conto, prenderne atto, perché tutte le vane preoccupazioni
cadano, e si verifichi l'immediata estinzione di ciò che è superfluo, nella
permanenza di quanto è necessario e immutabile. Certo, se rimane prigioniera di un'errata concezione
dell'ittihâd, la creatura amante è destinata a struggersi perennemente, sempre
frustrata nel suo desiderio di estinguersi nell'Amato; ma se capisce che può
contemplare l'integrazione degli sparsi elementi del suo essere, a somiglianza
di come Dio medesimo contempla se stesso nella propria immagine, l'Intelligenza
prima, essa perviene alla più alta soglia della realizzazione spirituale, detta
l'"identità suprema": unità della contemplazione ed Unità dell'Essere
non costituendo che le due facce di una sola dottrina, di un'unica realtà.
Ritornando
al punto di partenza di questa digressione, ovvero il titolo del presente
lavoro, dell'albero umano e dei quattro uccelli spirituali si dirà poi, a tempo
e luogo; in ogni caso, quanto appena accennato a proposito dell'ittihâd, detto
a preliminare illuminazione di tutto il cammino da percorrere, valga a mostrare
quanto accidentato sia il terreno su cui ci si muove, e di conseguenza con
quale cautela occorra procedere.
L'operina
esordisce con due testi poetici che presentano una serie di alternanze e di
polarità non riconciliabili che alla luce della nozione di tawhîd appena
illustrata, e fra i quali viene
significativamente posta la dichiarazione dell'autore di non volersi, in
realtà, rivolgere che a se stesso.
Nondimeno
l'Epistola prosegue con una dedica ad Abû-l-Fawâris Sahr Ibn Sinân, nome che
non risulta appartenere ad alcun personaggio storico né ad altro precedente
personaggio letterario. Ibn `Arabî si è pertanto servito di un nome fittizio,
ma costruito ad arte. Intanto, Abû-l-Fawâris corrisponde a "Padre dei
Cavalieri", formula che
spiega l'appellativo, attribuitogli poche righe oltre, di "maestro delle
redini di generosità ed eloquenza", dove per un gioco di parole
dell'originale la prima redine adombra l'Essere e la Seconda il Corano; inoltre
epiteti come "terzo e secondo", "colui cui si allude nelle
duplici espressioni di lode" e "realtà sottile dell'Istante"
rimandano sicuramente alla figura dell'Uomo Universale, che rappresenta la
perfezione dell'essere creato a immagine di Dio e la sintesi di tutte le
potenzialità della manifestazione.
Ma
c'è di più. Sahr Ibn Sinân richiama subito alla memoria quel Halîd Ibn Sinân,
romito preislamico, al quale Ibn `Arabî riserva un capitolo delle Gemme della
Sapienza,(3) qualificandolo anzi come immediato precursore di
Muhammad; e l'identificazione pare tanto più probabile ove si consideri che
"sahr" vale "monte", "roccia" ("Io sono
quale rupe, quale roccia" recita un verso dell'ultima poesia
dell'Epistola), mentre la radice del nome Halîd evoca le idee di
resistenza e di stabilità.
Esistono infine dei suggestivi punti di contatto fra Sahr Ibn Sinân e Ibn `Arabî che quest'ultimo non
poteva ignorare, e ai quali non poteva restare insensibile: in primo luogo la
circostanza che erano entrambi
profeti di una profezia senza contenuto specifico, ma universale e per
così dire di ispirazione, e poi il fatto che, nei riguardi di Muhammad,
ricoprivano funzioni complementari: Ibn Sinân di "ricettacolo" delle
potenzialità attualizzate dal Profeta al momento della Rivelazione, e Ibn
`Arabî di Sigillo della Santità muhammadiana. Sarebbe pertanto difficile non
concludere, seppure in via d'ipotesi, che il nostro autore abbia voluto
fabbricarsi uno psudonimo spirituale: con ciò, ancora, finendo per dedicare
l'Epistola a se stesso, ma rivestendosi al contempo delle opportune prerogative
e dignità.
Successivamente
una terza lirica è posta in limine a quello che si configura come il racconto di un'ascensione. Il
narratore-protagonista, che possiamo ben ritenere Ibn `Arabî stesso, inforca il
burâq, cavalcatura celeste, ed intraprende il suo metafisico viaggio, in una
chiara imitatio Prophetae(4). Ma attenzione: si ricordi che il Nostro è un
profeta senza profezia, il suo destino e la sua funzione non sono quelli di
Muhammad, chiamato ad avvicinarsi a Dio a meno di due tiri d'arco, ad
ascoltarne la Parola ed a ritornare per divulgarla. Anche Ibn `Arabî giunge ad
udire una Voce, emblematicamente "non esterna né interna e tuttavia
proveniente da lui", e a dialogare con essa; ma il contenuto di
quel dialogo non è una sorprendente Novella, bensì una graduale e sofferta
acquisizione di consapevolezza della sua duplice realtà, come creatura e come
essenza.
Quella
che qui viene posta con drammatica forza è la questione dell'identità, punto
focale dell'opera del Nostro. In che cosa l'uomo, e il medesimo Uomo
Universale, somigliano a Dio, e in che cosa ne sono diversi? Secondo Ibn `Arabî
la risposta è la seguente: quando per il tramite dei suoi mezzi terreni
manifesta gli attributi divini, l'uomo si trova in relazione di somiglianza con
Dio; tuttavia, quanto all'essere, la differenza è incolmabile, dal momento che
l'Essere non appartiene che a Dio. Pertanto, onde realizzare l'integrazione di
sé, l'uomo dispone di un'unica strada: quella del riconoscimento della propria
radicale inesistenza rispetto all'Essere.
Ma,
una volta che abbia compreso e accettato questo, egli inizia a camminare sulla
giusta via, "maestro a se stesso", ormai pronto ad attingere
ai gradi più alti; ed è allora che gli vengono rivelati l'albero e i quattro
uccelli spirituali; i quali gli si presentano sia come simboli di realtà
superiori che come ipostasi di lui medesimo nella sua qualità di Uomo
Universale, suoi comprimari nello ierodramma dell'emanazione e del successivo
ritorno. Tale ierodramma, si badi bene, tutto comprende, al di fuori di esso
letteralmente nulla è; e l'intera
storia mondana, compendiata in Cor. 2,151:(5) "Certo da Dio veniamo
ed a Lui ritorniamo", non ne è che il lato in ombra; ma un'ombra nella
quale il Signore lascia filtrare segni, fa balenare la verità (Cor. 41,53).
Il
primo a mostrarsi è l'Albero, il cui prototipo ovviamente si trova nell'olivo
"né orientale né occidentale" del Versetto della Luce (Cor, 24,35). Esso simboleggia l'Uomo negli
aspetti dell'universalità e dell'identità; unico e atemporale, è il luogo
dell'incontro con l'Assoluto, in un Istante di gioiosa compiutezza che la
vicenda del tempo non corrompe. Quale Axis Mundi, inoltre, esso ricollega
fra di loro tutti gli stati dell'Essere; la sua verticalità, implicante
nondimeno l'orizzontalità (obbligatorio a questo riguardo il riferimento al
Guenon de Il Simbolismo della Croce (6) ), è figura dell'asse della discesa divina
sul Trono, il quale a sua volta è immagine della manifestazione universale e
della realtà mediatrice fra creato e increato.
Le
radici ed i rami rispettivamente rappresentano i mondi superiori e gli
inferiori; le foglie, gli stati paradisiaci; ed i frutti le conoscenze che vi
sono connesse. Con la sua ombra l'Albero protegge la manifestazione dal troppo
vivo fulgore, facendo in modo che gli esseri rimangano compresi in un amalgama
d'ombra e di luce, quella materia primeva che è la sorgente di tutte le
creature. Principio, come si è visto, di unità e identità, l'Albero porta in sé tuttavia la dualità e la differenza, che sono
poi le nascoste ma autentiche
molle dell'intero processo creativo; e l'ondeggiare dei rami, nell'alterno e
continuo piegarsi fino a terra e slanciarsi verso il cielo, esprime l'incessante moto degli esseri, i
quali ora s'allontanano ed ora tornano, ora ascendono a Dio ed ora ripiombano
nelle bassure del mondo.
Per
questo Ibn `Arabî assimila l'Albero al Roveto ardente di cui in Cor. 28,30: "E quando venne ad
esso, fu gridato a lui, dal versante destro della valle, nella località
benedetta, dalla pianta: 'O Mosè, invero io sono Dio, il Signore delle creature'.",
versetto che nelle Rivelazioni
Meccane(7) il Nostro commenta come segue: "Colui che ha parlato dall'albero
non è altri che Dio il Vero; Egli ha dunque assunto la forma dell'albero.
Parimenti, Colui che Mosè ha udito
non è se non Dio medesimo; Egli è pertanto la forma di Mosè in quanto uditore
verace, esattamente come è la forma dell'albero, essendo stato Lui a parlare da
esso. Nondimeno l'albero è l'albero e Mosè è Mosè, senza confusione alcuna,
poiché nulla può mescolarsi all'essenza. La commistione implica due essenze,
mentre in questo caso ci si trova di fronte a due situazioni diverse". E'
facile vedere come anche in questo commento Ibn `Arabî non perda l'occasione per una rigorosa e puntuale
messa a punto del concetto di ittihâd, e come pertanto quest'ultima e l'Albero
siano espressamente legati.
Nell'udire
il discorso dell'Albero, "dal giardino della propria santità" la
Tortora getta un grido ed inizia a parlare di sé; e dopo di lei faranno altrettanto l'Aquila Reale,la strana
Fenice e il Corvo nero-giaietto. Ora, posto che la possibilità di dialogo con
essi è fondata su Cor. 27,16, ove Salomone afferma: "O uomini, a noi è
stato insegnato il linguaggio degli uccelli", il simbolismo dei quattro
uccelli ha certamente parentela con Cor. 2,262, che recita: "Quando Abramo
disse a Dio: 'Signor mio, fammi vedere come dai la vita ai morti', Dio gli
disse: 'Non credi tu ancora?'. 'Sì' disse Abramo, 'però desidero che il mio
cuore sia rassicurato'. Dio gli disse allora: 'Scegli quattro uccelli, attirali
a te, tagliali in pezzi, quindi mettine un pezzo su di ogni montagna, poi
chiamali; ed essi verranno a te rapidamente, e sappi che Dio è potente e
saggio'." Al citato
sacrificio abramico, infatti, nell'Epistola ben corrisponde lo sforzo compiuto
dall'Uomo Universale nel riunire le sparse membra dell'essere, onde rianimarle
grazie alla potenza del Verbo ch'egli reca in sé; e poco rileva che per la
tradizione i quattro uccelli del testo coranico siano 'reali', nonché diversi
da quelli indicati da Ibn `Arabî (per la precisione un gallo, un pavone, un
corvo e una colomba): dal momento che almeno due commentari esoterici di
contemporanei del Nostro, quello di Ibn Barragân e quello di Ruzbehân Baqlî, ne
danno un'interpretazione spirituale del tutto in linea con la sua.
A Ibn `Arabî va poi in ogni caso
ascritto di avere per primo decisamente legato il simbolismo dell'Albero a
quello degli Uccelli, stabilendo fra essi un rapporto simile a quello esistente
fra soggetto e attributi in Cor. 57,3: "Egli è il primo e l'ultimo, il
visibile e l'occulto...": l'uno rappresentando la realtà divina
dell'Essere, gli altri ogni manifestazione possibile nell'esistenza.
Nell'udire
il discorso dell'Albero, "dal giardino della propria santità" la
Tortora getta dunque un grido ed inizia a parlare. Essa non è il primo degli
esseri venuti all'esistenza, in quanto "nata" dall'Aquila; tuttavia è
la prima ad esprimersi, quale simbolo del santo spirito posato sul Loto del
Termine,(8) limite invalicabile persino dall'arcangelo Gabriele
e nondimeno varcato dal Profeta - Uomo Universale - nel frangente
dell'ascensione celeste. Innanzitutto la Tortora si svela come facoltà di determinarsi e
differenziarsi mediante lo "`ayn": archetipo dell'essere nella
conoscenza divina, "occhio" attraverso il quale si percepisce e si
contempla la propria essenza. La sua apparizione in cima all'Albero annuncia
pertanto l'ambivalente realtà degli esseri, il loro venire all'esistenza come
creature e il successivo ritorno per mezzo della contemplazione.
E'
proprio grazie al suo potere "riflettente" che la Tortora stessa è
chiamata a informarci di quanto accaduto persino in una fase anteriore al suo
ingresso nell'esistenza. L'Aquila, Intelligenza prima e primigenia
emanazione,se ne stava solitaria e isolata; divisa dal Principio, la sua
debolezza e impotenza erano assolute. Ma ad un tratto e senza che se ne
avvedesse sortì da lei la Tortora, quasi Eva sorgente dal fianco di Adamo
immerso nel sonno: come se all'Intelligenza non fosse dato di accorgersi della propria facoltà creatrice. Da ciò
nasce la prima coppia di opposti complementari; l'unità dell'essere è spezzata,
tuttavia soltanto in apparenza, poiché la divisione non è che il preludio a un
riavvicinamento.
Non
appena l'Aquila scorge la Tortora - è sempre quest'ultima a narrare - si
accende d'amore per la sua bellezza, non sapendone scorgere all'inizio che i
tratti esteriori. Quando però si
avvede dell'errore in cui stava cadendo è la Tortora medesima a spiegarle i
motivi della propria comparsa, e i termini delle loro imminenti nozze
spirituali.
La
Tortora è lo specchio ove l'Aquila può osservare la sua immagine, e prendere
atto delle proprie facoltà di creare e conoscere. Certo, Tortora ed Aquila
restano separate, e questo introduce
nel loro rapporto d'amore un insopprimibile aspetto di nostalgia;
nondimeno l'unione si compie, e dallo spiro della Tortora "nasce" la
Fenice; spiro che si può assimilare a quello del Misericordioso, aspetto
"materiale" e per così dire femminile della Realtà Muhammadiana
generatrice degli esseri.
Appresso
alla Tortora prende la parola l'Aquila, ovvero l'Intelligenza prima; la quale,
per Ibn `Arabî, è una teofania, proiettata nel mondo dell'esistenza, attraverso
cui Dio si manifesta a se medesimo. In quanto essere creato, l'Intelligenza
esula dalla sfera divina; e con ciò Ibn `Arabî assume una posizione ben precisa
in una questione che arrovellò lungamente i teologi delle tre religioni del
Libro. Tuttavia, pur non essendo divina, l'Intelligenza è lo strumento principe
dell'atto del conoscere, che per essa equivale alla contemplazione diretta del
cuore dell'Essere.
Prendendo
la parola, l'Aquila innanzitutto si affretta a confermare il racconto della
Tortora; dopo di che, mentre il suo trono prende a oscillare, incomincia
a cantare battendo le ali. A questo punto
dell'esposizione-interpretazione dell'Epistola converrà introdurre una pausa,
per una digressione del resto già
annunciata in apertura, quando si accennava agli accenti familiari ed all'aria
di casa che aleggiano in quest'operina, che pure in principio può sembrare così
stravagante e lontana dalla nostra
cultura. Quando l'Albero aveva salutato il pellegrino della via come
"maestro a se stesso" ci si era giudiziosamente trattenuti
(seppure a fatica) da un richiamo a Purg. XXVII, 139-142; (9) parimenti, non
volendo far torto alla perspicacia di alcuno, si è poi tralasciato di parlare
di architetture neoplatoniche o di tematiche affini a quella cristiana della
polarità fra visione delle creature in Dio e visione di Dio nelle creature. Ma
ora ci si trova di fronte ad una singolare analogia di situazione, addirittura
ad uno sconcertante parallelismo verbale.
Infatti
quest'Aquila, ipostasi del Trono di Dio fiancheggiato dai due ministri che
hanno per nome Colui-che-dona e Colui-che-rifiuta; quest'Aquila che, mentre il suo trono prende a
oscillare, incomincia a cantare battendo le ali, non può non
ricordarne un'altra: quella di Par. XIX, canto ambientato nel sesto cielo,
quello di Giove, dove si trovano gli spiriti giusti, e dove viene dibattuta la
questione - vedi il caso! - della salvabilità degli infedeli. Da parte sua Asín Palacios stabilì un
confronto fra l'aquila dantesca e un angelo-gallo che si ritrova in alcune
varianti dell'ascensione celeste del Profeta, (10) ma con tutto il rispetto la
corrispondenza qui proposta appare assai più stretta e calzante. Infatti
l'aquila di Dante non se ne sta soltanto ad ali aperte (v.1), ma, "Quasi
falcone ch'esce dal cappello, / move la testa e con l'ali si plaude"
(vv.34 ss.), anzi addirittura canta "roteando" (v.97).
L'analogia è tanto più forte se si osserva che il movimento dell'aquila
ibn`arabyana va posto in correlazione con quello dell'estensore-protagonista
dell'Epistola, il quale, alcune pagine avanti, si era messo "ad oscillare
come una lampada appesa". Inoltre, e siamo al punto culminante di questa
argomentazione, l'aquila del sesto cielo, disputando con Dante, gli rimprovera
giust'appunto di trascurare la potenza e l'imperscrutabilità della Grazia. Ora,
Ibn `Arabî è un rigido predestinazionista; perciò parrebbe quasi che, servendosi di quel particolare simbolo,
in quella forma specifica, Dante abbia voluto adombrare in questo preciso
frangente l'insegnamento, la voce, financo la presenza del suo
"collega" andaluso.
Rimandando
ovviamente all'apposita letteratura (11) altro non si dirà, che forse si è già
detto troppo; in ogni caso si ribadisce il convincimento dell'esistenza di un
"Medioevo fantastico" dai mille percorsi, di un'ecumene mediterranea
(e non solo!) che fino ad oggi (dal momento che lo studio del passato è sempre
subordinato alle esigenze del presente) è stata sistematicamente ignorata se
non brutalmente rimossa - salvo magari essere in tutta fretta recuperata, ed
inserita in una stucchevole cornice da età dell'oro.
A
chi poi obiettasse che tutto ciò appare scarsamente fondato si risponderà che
non ha torto, ma che all'epoca di cui trattasi esistevano mille ottime ragioni
per esprimere certi concetti e contiguità in forma volutamente sibillina; e che
inoltre l'arte sa benissimo da sé come raggiungere determinati risultati,
appena accennando, parlando d'altro, affermando quando pare smentire. Un
esempio per tutti, sempre tratto da Dante, e sempre riferito ai suoi possibili
contatti con la cultura arabo-islamica. Si ponga mente, nell'episodio infernale
dell'incontro fra Dante e Muhammad,(12) all'insistita meraviglia degli astanti
per il fatto che il Fiorentino si trovi nell'Aldilà ancora in vita, e con il
corpo; meraviglia cui fa riscontro la totale indifferenza di Muhammad. Ebbene,
tale indifferenza può forse esprimere, benché in modo sottile, adatto soltanto
all'intuizione dei conoscenti, la circostanza che i due hanno vissuto la
medesima esperienza estatica. D'accordo, l'ipotesi appena avanzata è con ogni
probabilità destinata a rimanere priva di verifica; ciò non significa però che
non sia coerente e legittima.
Successivamente
all'Aquila prende la parola la Fenice. "Figlia" dell'Aquila e della
Tortora, essa rappresenta la materia primeva e contemporaneamente l'insieme
delle potenzialità del cosmo, e costituisce altresì come uno schermo capace di
rivelare la luce dell'Essere, di
riflettere sull'Uomo Universale
l'onnipotenza e l'onniscienza di Dio. Viene poi detta "strana"
per "la natura ineffabile dell'essere suo", cui lei medesima allude
"in modo enigmatico".
E
davvero è enigmatica e strana, a cominciare dal nome e dall'aspetto che questo
suggerisce. Infatti nell'originale "fenice" è `anqâ', femminile
di a`naq, termine che sta per
"uccello dal collo lungo"; ciò che potrebbe far pensare ad un
allineamento con l'antica tradizione egizia ed ellenistica, la quale identifica il mitico uccello
con l'airone cinerino. Le cose però sono alquanto più complicate, dal momento
che nella letteratura araba le sue connotazioni risultano invece altre,
denunciando ascendenze orientali.
Già
nell'Epistola degli Uccelli di al-Gazâlî, ad esempio, la fenice è assimilata al
simurg persiano, che, nel Verbo degli Uccelli,(13) Farîd ad-Dîn 'Attâr descriverà
come "uno specchio grande come il sole, e chiunque vi guardi vede
l'immagine di se stesso, del corpo e dell'anima". Quella della fenice, in
ogni caso, è la figura ove convergono e si risolvono i contrasti
dell'incessante vicenda di morte e
rinascita, come del resto la presente Epistola indica collocandola "nella
stazione di mezzo"; e se pure questi tratti sembrano qui piuttosto assunti
dal Corvo, Ibn `Arabî ne sottolinea la caratterizzazione escatologica in altra
sua opera, La Fenice Occidentale
riguardo al Sigillo dei Santi [Gesù] e al Sole d'Occidente [il Mahdî, ovvero
l'ultimo imâm, cui si farà cenno più avanti].
Ultimo
dei principi cosmici ed ultimo a parlare è il Corvo nero-giaietto,
"figlio" della Fenice e simbolo del Corpo Universale inteso come
dispiegamento completo della creazione, nonché generatore delle forme e delle
figure sacre: a partire dall'Axis Mundi dell'Albero il Corvo origina infatti la
sfera della volta celeste, il primo e più perfetto dei volumi, le cui tre
dimensioni determinano letre categorie degli esseri, vale a dire i giusti, i
reprobi e quanti nell'Istante fuori del tempo hanno ritrovato l'unità. Questo fa ben comprendere la portata
escatologica di tale simbolo. Se l'Aquila, inaugurando l'esistenza, è il
predecessore, il primo e l'interiore, il Corvo, che rappresenta il punto
estremo della manifestazione, è il successore, l'ultimo e l'esteriore: il nero
profondo delle sue ali spiegate diventa allora il segno di ciò che, sotto le
innumerevoli specie dell'esistenza, ripara ed occulta. Nondimeno proprio tale
occultamento prelude alla resurrezione ed al ritorno allo stato primordiale;
così che il Corvo può tuttavia essere "corpo e tempio delle luci" e
"scrigno dei segreti".
Quest'ultimo
aspetto riconduce alla questione dell'imâmato,(14) una delle più importanti e
spinose del pensiero islamico, emblematicamente adombrata proprio al termine
dell'Epistola. Riassumiamola per sommi capi. Esauritosi con Muhammad il ciclo
della profezia, si entra nel tempo dell'attesa del Giudizio, nel quale non
occorre più chi riveli la Legge, poiché la sua Rivelazione ha già avuto
interamente luogo, ma è necessario chi ne garantisca l'osservanza e ne
interpreti i significati più riposti. Tale garante ed interprete è appunto
l'imâm. Tuttavia, come l'insegnamento di costui è di natura particolarissima e
sottile, così la sua figura tende ad essere velata ed occulta. Qui, beninteso,
non si parla tanto dei personaggi cui viene riconosciuto ufficialmente il ruolo
di imâm, quanto di coloro che nascostamente sono chiamati a esercitare un
influsso decisivo; e il loro occultamento, che è innanzitutto spirituale ma può
giungere alla vera e propria sparizione fisica, si fa metafora dell'assenza dal mondo di quell'ultimo imâm, di
quel Mahdi assimilabile al Messia, che con la sua comparsa provocherà
l'irruzione della fine.
Ora,
nella lirica che precede immediatamente il congedo, il Corvo afferma di essere
"quale rupe, quale roccia", in tale modo identificandosi come si è
visto sia col destinatario che con l'estensore dell'Epistola; quindi si
definisce come "segreto di un imâm di grande merito, per posizione, e
scienza, e rango". Parrebbe dunque di poter concludere che Ibn `Arabî non
soltanto intrecci immagini poetiche a considerazioni filosofiche sulla
dimensione escatologica dell'Uomo Universale, ma operi altresì un collegamento
di qualche sorta fra la propria persona e la funzione dell'imâmato; per quanto,
com'è ovvio data la scabrosità del tema,
in termini oscurissimi ed impliciti. Del resto, se questa sensazione
fosse esatta e ciò fosse vero, il movente di Ibn `Arabî non andrebbe sicuramente cercato
in un'empia arroganza, ma al contrario in una consapevolezza estrema, nel
sofferto riconoscimento del proprio arduo destino.
Roberto
Rossi Testa
Torino, luglio 1998
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Note all'Introduzione
* Esiste una traduzioine francese in Le
Livre de l’Arbre et des Quatre Oiseaux curato da Denis Gril per Les Deux
Océans, Paris, 1984 (Nota dell’Editore)
1 Riv. Meccane, Il Cairo 1911, II, 130 (Quest. 153). A
proposito dell'intera questione dell'ittihâd vedi anche la postfazione di M.
Valsân ad altra opera di Ibn `Arabî, Il Libro dell'Estinzione nella
Contemplazione, Milano 1996.
2 Riv. Meccane, II, 31 (Cap. 73).
3 Vedine l'antologia in italiano (peraltro non
contenente il capitolo in questione) intitolata La Sapienza dei Profeti, Roma
1987.
4 A proposito dell'ascensione celeste di Muhammad vedi
Il Libro della Scala, Milano 1991.
5 La numerazione dei versetti coranici è quella dell'ed.
curata da L. Bonelli, Milano 1979.
6 In particolare il cap. XXIII. (Trad. it. Il Simbolismo della Croce, Milano-Trento 1998.)
7 Riv. Meccane, IV, 71.
8 Per il Loto
del Termine vedi Cor. 53, 1-18.
9 "Non aspettar mio dir più né mio cenno: /
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: //
perch'io te sovra te corono e mitrio."
10 La Escatología Musulmana en la Divina Comedia,
Madrid 1919, trad. it. Dante e l'Islam, Parma 1994, pag. 59 e seguenti.
11 Vedi ad es. la bibliografia in appendice all'opera
di cui alla nota precedente.
12 Inf. XXVIII, 22-63.
13 Vedi trad. it. Milano 1986.
14 Su questa fondamentale questione vedi soprattutto,
di H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1973, e L'imâm nascosto,
Milano 1979.