Studi danteschi

I CODICI DELLA COMUNICAZIONE
DELLA CULTURA ARCAICA

Per lo studio dell’opera di Dante Alighieri in rapporto alla tradizione greco-latina.

O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Inferno, I, 82-86
O diva Pegasea che li ‘ngegni
Fai gloriosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e’ regni,
illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Paradiso, XVIII, 82-86
Ciascuna cosa studia naturalmente a la sua
conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a
quella; e quella sarebbe, acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade
non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime.
7. E questo medesimo
studio è stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza.
Convivio, I, 13, 6-7

Le parole rivolte a Virgilio, l’invocazione alla diva pegasea e l’affermazione del Convivio, circoscrivono l’ambito del presente studio in rapporto al tema della lezione sui codici di comunicazione della cultura arcaica. Il secondo passo citato richiama l’attenzione del lettore su di una particolare tecnica poetica che rende gloriosi e longevi sia gli ingegni che le loro città, - come l’uom s’etterna , si potrebbe dire, secondo l’insegnamento di Brunetto Latini - mentre l’affermazione del Convivio mostra in quale direzione si esplica tale tecnica, legando il dettato in lingua volgare con numero e rime. Publio Virgilio Marone appare come il maestro e l’autore di Dante come poeta.

Se interrogassimo i migliori studiosi del poeta latino oggi presenti nelle università europee su che cosa Dante possa mai aver appreso dallo studio dell’Eneide verremmo a sapere il carattere della poesia virgiliana in rapporto agli altri poeti latini, e l’ambito della sua cultura e altri temi interessanti, ma difficilmente troveremmo quelle ragioni forti che fanno comprendere le parole rivolte a Virgilio. La ragione è semplice. In Europa da gran tempo non si leggono più i poeti classici, latini e greci, come Dante leggeva i suoi autori, cioè, oltre Virgilio, Ovidio e Lucano. Non ricerchiamo oggi in questi autori ciò che il Nostro invece ricercava. Per questa ragione non siamo nemmeno più in grado di leggere in senso compiuto Dante.

Tra noi e gli autori dell’antichità si è prodotta una frattura che definisco epistemologica, tale cioè che ci impedisce di capirli secondo il contesto della loro cultura. Questa frattura non è colmabile né dalla filologia moderna né dalla ricerca storica che si è costituita in Europa dal XVI secolo in poi. Le due discipline sono necessarie alla critica, ma insufficienti all’ermeneutica del testo. In altri termini, la semplice lettura dei testi scritti non ci dà l’accesso a quell’universo culturale e antropologico costituito dalla cultura orale da cui sono sorte le varie civiltà della scrittura.

Se nel leggere un testo di un autore appartenente alla cultura arcaica non impariamo infatti ad interrogarci su ciò che il testo comunica secondo il codice culturale con il quale è stato composto, (codice che non si riduce alla conoscenza della lingua) e ci limitiamo a ciò che è esplicitamente scritto, ben difficilmente la lettura sia pur attenta di quel testo e di quell’autore, sarà all’origine di un mutamento nel percorso di conoscenza che ci porta a rivolgere lo sguardo in una nuova direzione. Saremo portati a rilevare solo ciò che ci rassicura nel nostro orientamento, che ci conferma nei nostri pregiudizi.

Se poi la lettura di un classico esige che si passi dall’esteriore all’interiore, dalla scorza al nocciolo, esige tuttavia che tale processo di lettura sia inesauribile. Solo per i testi scientifici la comprensione e la soluzione di un problema non richiede un’ulteriore ricerca.

Ora è Dante stesso ad avvisarci che vi sono più livelli o sensi di lettura, da quello letterale a quello allegorico, morale e anagogico. Se i primi tre sensi sono afferrabili l’ultimo è il più difficile da cogliere. I quattro sensi sono ripresi dalla lettura delle Scritture con una differenza se vengono ricercati nelle favole dei poeti. L’allegoria dei poeti infatti “è una veritade ascosa sotto bella menzogna” (Convivio,II,I, 3) che si distingue, e Dante ha cura di dichiararlo, dal senso allegorico dei teologi. Il senso anagogico è un sovrasenso e concerne invece la lettura spirituale ed è relativo alle “superne cose dell’etternal gloria” (Convivio, II,I,4). Purtroppo il preannunciato trattato o capitolo su come sotto il velo della favola sia nascosta la verità (E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. II,I,4) non fu mai scritto da Dante, essendo il Convivio interrotto alla conclusione del quarto trattato sui quindici in progetto.

Il sistema ermeneutico dei quattro sensi però deve essere tenuto distinto dal sistema delle allusioni, sistema che emerge dall’essere attenti, durante la lettura, al rapporto del contenuto del verso al numero del verso, attenti anche a quel legame di numero e rime dichiarato nel Convivio e tipico della tecnica poetica studiata e seguita da Dante.

Se leggiamo al verso settanta del primo canto della Commedia Virgilio che afferma: Nacqui sub Iulio …, solo se già sappiamo che il poeta latino è nato il 15 ottobre del 70 a.C. possiamo cogliere l’identità del numero del verso con l’anno di nascita di Virgilio. Ancora. nella seconda canzone del Convivio, Amor, che ne la mente mi ragiona, al verso settantadue leggiamo

72 Costei pensò Chi mosse l’universo

Solo se ci si interroga sulla legge con la quale Dio mosse l’universo possiamo riconoscere nel numero del verso l’inizio di una possibile risposta, a patto però di conoscere in modo tecnico l’astronomia antica e sapere con quale legge si origina il calcolo del tempo legato al primo moto dell’universo. Infatti sono necessari settantadue anni affinché lo spostamento retrogrado degli equinozi sia di 1°. La relazione del termine tempo col numero settantadue si ritrova stranamente ancora nelle parole di Virgilio

72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Sempre al verso 72 del secondo canto dell’Inferno Beatrice, rivolgendosi a Virgilio, dichiara:

72 amor mi mosse, che mi fa parlare.

in cui si ritrova lo stesso verbo muovere del citato verso della canzone del Convivio.

Vi sono altri segnali precisi che possono orientare la ricerca su Dante. Essi dipendono da indicazioni temporali, come quella relativa alla morte di Beatrice e alla apparizione della Donna gentile, una figura letterario-allegorica della Filosofia-Sapienza del Convivio. Se la data della dipartita di Beatrice viene indicata secondo una perifrasi con riferimento a tre calendari, quello arabo per il giorno, quello siriaco-ebraico per il mese e quello cristiano per il secolo e l’anno, indicazione che corrisponde a giovedì 8 giugno 1290, la data dell’apparizione della “Donna gentile” viene trovata calcolando due rivoluzioni del pianeta Venere lungo l’epiciclo dalla morte di Beatrice e porta a giovedì 20 agosto 1293. La prima data forse non dirà nulla, ma 658 anni prima, cioè lunedì 8 giugno 632 d.C. corrisponde a lunedì 14 Rabi’I dell’anno undicesimo dell’era islamica, sicchè la morte di Beatrice è posta nell’anniversario della morte del profeta Muhammad, coincidenza questa per nulla rilevata dagli studiosi di Dante, mentre giovedì 20 agosto 1293 corrisponde a giovedì 16 Ramadan. La coincidenza appare secondo il calendario dell’èra cristiana, ma non secondo il calendario dell’èra islamica. In un nostro saggio dal titolo In lode di Dante, a commento sulla data di morte di Beatrice, era stata fatta l’ipotesi che il secondo incontro con Beatrice, quando il poeta aveva compiuto diciotto anni, fosse da collocarsi all’11 giugno 1283. Quell’incontro si situava rispetto al plenilunio della morte del Profeta a 8052 mesi lunari, un periodo che si trova nella cultura arcaica greca come il ciclo di Apollo, simbolicamente espresso dal suo arco d’argento. Nel preparare questa lezione grande fu la sorpresa nel constatare che l’11 giugno 1283, quando Dante a Firenze incontra Beatrice ricevendo, secondo il racconto, il suo unico saluto, nei paesi islamici quel giorno era indicato come il 14 Rabi’ I dell’anno 682 dell’èra islamica, e quindi, ancora una volta, nell’anniversario della morte del profeta Muhammad.

È evidente, quindi, che il rapporto di Dante con l’Islam, ipotizzato dall’orientalista Asin Palacios, è già presente in modo sotterraneo nelle indicazioni calendariali per le due figure fondamentali dell’opera poetico-filosofico-teologica di Dante, per la Beatrice della Vita Nuova e per la Donna gentile del Convivio, la cui importanza forse è superiore alla stessa figura di Beatrice. Infatti la sua apparizione coincide con quelle ricerche di testi e di studi scientifici, filosofici e teologici che Dante colloca dopo la morte di Beatrice e che lo condussero a mettere da parte la cultura poetico-letteraria della tradizione classica per una rinnovata e prevalente attenzione alla tradizione biblico-cristiana. Nel testo della Vita Nuova vengono esplicitamente citati i nomi di Omero,Virgilio, Lucano, Orazio, Ovidio contro il solo nome del profeta Geremia. Sono i poeti del nobile castello del Limbo (Inferno, IV, 86-90), coi quali Dante si intrattenne, parlando di cose sulle quali ‘l tacere è bello (Inferno, IV,104).

L’ipotesi di ricerca che ne discende concerne anche il suo possibile debito nei confronti della probabile lettura del Kitab al- Mi’rag in una versione latina dal titolo Liber Scale Machometi, non tanto per l’ispirazione di un viaggio ultraterreno, già presente al tempo di Dante in una minore letteratura escatologica, quanto per aver offerto al giovane poeta spunti per meditare sul significato del trono di Dio, andando a leggere o rileggere con occhi nuovi il capitolo IV dell’Apocalisse sulla visione del trono. Infatti nella traduzione latina, portata probabilmente da Brunetto Latini da Toledo a Firenze, Dante poté leggere al capitolo XX, paragrafo 52:[1] , E mentre avanzavo in quel cielo ammirando la dimora di Dio, vidi il suo trono, che mi parve così unito al cielo da esser come se il cielo e il trono fossero stati creati insieme.

L’importanza della figura della Donna gentile, emblema della sapienza creatrice di Dio, - ad essa pensò Chi mosse l’universo, come si legge al v. 72 della canzone Amor, che ne la mente mi ragiona - , risiede nell’affermazione che la sua bellezza aiuta la fede: manifesto è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta. (Convivio, III,VII, 16).

Il paradosso di questa tesi, ove fosse comprovata, consisterebbe in questo. La lettura di un testo di cultura islamica avrebbe spinto il giovane poeta a riscoprire con una personale ricerca di testi e studi la dimensione sapienziale della tradizione biblico-cristiana. In questo modo il contrasto dei due amori, uno per Beatrice e l’altro per la Donna gentile, sarebbe la cifra letteraria di un contrasto ben più serio di quello di un innamoramento del giovane poeta per una pargoletta dopo la morte di Beatrice. Tuttavia anche solo la presentazione di questa ipotesi di ricerca esige che già si sappia che cosa trovò nei poeti latini, e come sia lo statuto della comunicazione della cultura arcaica.

Per poter identificare un testo o un documento, letterario o iconico, come appartenente alla cultura arcaica è necessario analizzare la sua composizione, rilevare se esso sia stato composto tenendo presente un particolare sapere cosmologico, che definiamo cosmologia arcaica. Quei testi narrativi non espongono il sapere, ma applicano quel sapere. Dopo la ricostruzione pressoché completa, la cosmologia arcaica si presenta come un compiuto calcolo del tempo, indipendente da ogni calendario. Esso è basato su espressioni arcaiche di intervalli temporali, tutte convertibili in mesi lunari. Data questa definizione, non è tanto l’antichità il criterio, quanto il suo codice di composizione. I testi filosofici di Aristotele, ad esempio, non appartengono alla cultura arcaica, mentre ad essa appartengono i tragici greci, l’opera di Esiodo, l’Iliade e l’Odissea e gli Inni omerici e Le Argonautiche di Apollonio rodio. Su questa linea si pongono le opere dei poeti latini, quelle di Virgilio, Ovidio, Lucano e altri, e l’opera di Dante appare essere la ripresa dotta e più completa di tali codici di comunicazione.

Il sapere cosmologico, essendo stato elaborato nel contesto di culture pre-letterarie nel IV e III millennio a.C., non poteva essere preso ad oggetto di comunicazione, costituendo esso il metalinguaggio tecnico e culturale della comunicazione. Quando in Grecia si diffuse la scrittura alfabetica fonetica, ben diversa da quella consonantica delle lingue semitiche, avvenne col tempo una cesura tra la cultura del racconto orale e quella sorta dalla scrittura alfabetica, la cultura cioè dei testi filosofici, scientifici e storici, che comportano la formazione degli astratti nella lingua, una sintassi del periodo con principali e subordinate e la nascita della coscienza individuale che libera l’individuo dall’esclusiva appartenenza al clan tribale e familiare.

Per noi è possibile esporre la struttura di tale sapere perché possiamo tradurre nel nostro linguaggio scientifico i termini e le metafore di tale sapere relativo al calcolo del tempo.

Il calcolo del tempo Per poter esprimere un intervallo di tempo è necessario far riferimento a fenomeni ciclici dell’universo e la definizione aristotelica del tempo – numero del movimento secondo il prima e il poi – citata da Dante nel Convivio – porta a ricercare quale sia il movimento da cui tutti gli altri movimenti sono misurati, che Dante espresse in Paradiso, XXVII, 115-116: Non è suo moto per altro distinto,/ ma li altri son mensurati da questo.

Se osserviamo di notte il cielo per qualche ora potremo constatare che la volta stellata ruota attorno ad un centro che ci pare fisso, ma che in realtà è soggetto ad un lentissimo movimento lungo un cerchio. Così ciò che appare centro della rotazione giornaliera del cielo, cioè il polo celeste, a sua volta si muove lungo una circonferenza. Qualcuno potrebbe dire, non senza qualche ambiguità, sotto forma di enigma, che il polo è centro e circonferenza.

Ora il lentissimo movimento del polo celeste lungo un cerchio produce quel fenomeno che chiamiamo precessione degli equinozi con la conseguenza che il tempo con il quale il Sole ritorna all’ equinozio di primavera è inferiore al tempo con il quale ritorna al medesimo punto della sfera celeste dell’anno precedente. Il primo periodo si chiama nel linguaggio scientifico anno tropico e il secondo anno sidereo. I due periodi espressi in giorni sono assai vicini all’anno giuliano di 365.25 giorni del calendario. L’anno sidereo è leggermente superiore e quello tropico è leggermente inferiore. Così la differenza di tempo in giorni dell’anno sidereo dall’anno tropico può essere concepita come unione di due differenze, quella dell’anno sidereo dall’anno giuliano e quella dell’anno giuliano dall’anno tropico.

Nelle culture arcaiche preletterarie, ben prima dell’astronomia geometrica greca, non si possono certamente trovare il valore dell’anno tropico e quello dell’anno sidereo del Sole, ma solo possibili relazioni concernenti le tre differenze, simbolicamente indicate mediante un lessico tratto dall’esperienza del mondo naturale. Durante i temporali e le tempeste si ha generalmente l’esperienza del fulmine, caratterizzato dal bagliore del lampo e dal rimbombo del tuono. I due aspetti si accompagnano generalmente e definiscono il fulmine. Questi tre termini divennero i significanti delle tre differenze: il fulmine come differenza dell’anno sidereo dall’anno tropico, il lampo come la differenza dell’anno sidereo dall’anno giuliano e il tuono come la differenza dell’anno giuliano dall’anno tropico. Con questa chiave di lettura molti racconti antichi perdono il loro carattere favoloso e mitico per divenire quello che sono: il dialetto internazionale del sapere relativo alle espressioni temporali, dato che lampi, tuoni e fulmini, come emblemi o come armi, appartengono a divinità che siedono simbolicamente sul trono in cielo. Per la Grecia sono prerogativa di Zeus o Giove e Zeus olimpio sul trono si ritrova nella pittura vascolare greca.

Se non fosse stato possibile trovare in che modo gli antichi hanno comunicato queste tre differenze non sarebbe stato possibile ricostruire la struttura aritmetica della Cosmologia arcaica. Quella piccolissima differenza, che gli antichi indicavano con il termine fulmine, poteva essere comunicata ricercando il numero necessario di anni affinché risulti un numero intero di giorni. Lo stesso discorso si può fare per il lampo e per il tuono.

La misura annuale secondo cui il polo nord celeste si muove lungo il percorso circolare della precessione si trova in tutta una serie di racconti antichi che presentano la cifra numerica di cinquanta o di settantadue. Questi due termini numerici stanno ad indicare, l’uno, i cinquanta secondi per la misura annuale della precessione degli equinozi, corrispondente all’arco compiuto dal polo nord celeste, e, l’altro, i settantadue anni necessari per un arco di un grado. Questo significa che il Sole trovandosi, ad esempio, a mezzanotte all’equinozio di primavera sull’equatore celeste si ritroverà poco dopo l’inizio del secondo giorno di primavera al punto della sfera celeste che settantadue anni prima segnava il punto equinoziale.

Anche per il movimento della Luna, se visto rispetto al piano su cui si muove il Sole in un universo geocentrico, vi è un analogo discorso. Il punti dell’eclittica attraversati dalla Luna non sono fissi e si chiamano rispettivamente nodo ascendente e nodo discendente. Vi sarà un momento in cui il nodo ascendente della Luna coincide con il punto d’Ariete, cioè con l’intersezione dell’eclittica con l’equatore celeste.

Premesse queste nozioni, gli antichi hanno espresso una legge di calcolo del tempo molto interessante, che lega l’arco compiuto dal polo celeste con il ciclo dei nodi lunari. Sorprendentemente i termini che indicano i gradi e i primi dell’arco del polo celeste e il numero delle rivoluzioni dei nodi lunari corrispondenti sono in progressione geometrica.

Nel tempo segnato da un arco di 1° 2’ di precessione degli equinozi vi sono state 4 rivoluzioni dei nodi lunari e la differenza dell’anno sidereo dall’anno tropico, cumulata per il medesimo tempo, è di 1 giorno e tre sessantesimi di giorno.

Per esprimere questa legge sono stati impiegati i primi quattro numeri, 1,2,3,4, sull’insieme dei quali i Pitagorici hanno elaborato la loro teoria degli intervalli musicali. Quell’insieme inoltre, chiamato tetraktys, contiene, secondo la formula del loro giuramento, la fonte e la radice della natura sempre fluente, come viene affermato da Giamblico, contiene cioè la legge perenne del tempo.

Nell’Odissea si trova espressa, per esprimere la mostruosità di Scilla, una progressione geometrica: tre file di denti, sei lunghissimi colli e dodici piedi informi (Odissea, XII, 89-91), mentre per Cariddi si dice al verso 105 che essa tre volte al giorno vomita l’acqua e tre volte la risucchia.

Un modo molto più elegante di comunicare letterariamente la legge dell’espressione del tempo si ritrova in una quartina di Omar Khayyan, un matematico, astronomo e finissimo letterato, un vero hakim, un sapiente. Le sue quartine sono caratterizzate dalla rima ternaria, cioé sono in rima il primo, il secondo e il quarto verso. Il terzo verso concerne qualcosa che non è in rapporto diretto con l'argomento del termine in rima.. Nella traduzione italiana di Alessandro Bausani nella quartina 93 leggiamo:Mai l'intelletto mio si distaccò dalla scienza,/Pochi segreti ci sono che ancor non mi son disvelati,/E notte e giorno ho pensato per lunghi settantadue anni,/E l'unica cosa che seppi è che mai nulla ho saputo[2].

Ben più significative sono le parole dette da Beatrice rivolgendosi a Dante a proposito del primo mobile, cioè a proposito del moto della nona sfera, a cui sono commisurati tutti i moti delle altre sfere: e come il tempo tegna in cotal testo/le sue radici e ne li altri le fronde,/omai a te può esser manifesto. (Paradiso XXVII, 118-120).

La metafora letteraria del tempo come un albero le cui radici si trovano sul cerchio del moto del primo mobile, quello che presiede alla precessione degli equinozi, e le cui fronde si espandono negli altri otto cieli sottostanti è tecnicamente perfetta e solo apparentemente è una metafora semplicemente letteraria. Essa esprime il sistema delle equivalenze tra i vari moti, come ad esempio nella seguente espressione:

Ad un arco di 20° 40’ del primo mobile corrispondono 80 rivoluzioni dei nodi lunari (primo cielo della Luna), 21 giorni di differenza tra l’anno sidereo e l’anno tropico (quarto cielo del Sole), 1488 anni (quarto cielo del Sole), 18404 mesi lunari (primo cielo della Luna), 19892 rivoluzioni sideree della Luna (primo cielo).

Tuttavia in questo sistema di equivalenze è espresso solamente la natura di un intervallo temporale, non c’è ancora l’albero che ha le sue radici nel cerchio della precessione, perché non abbiamo ancora indicato l’origine temporale. Si esprime il tempo solo se si indica l’origine o la radice e l’intervallo prima o dopo tale origine, altrimenti si ha in mano solo uno schema vuoto di calcolo, che non produce conoscenza di un evento nella storia, non colloca nel tempo ciò di cui si parla.

Per la ricostruzione della Cosmologia arcaica non è sufficiente conoscere il sistema delle equivalenze degli intervalli temporali che lega i gradi, primi, secondi e terzi di precessione ai giorni corrispondenti al fulmine, al lampo e al tuono, ai mesi lunari e agli anni solari e ai giorni, ma è necessario sapere anche i punti di origine delle varie culture nel cui contesto sono stati composti racconti e immagini. Questi punti di origine sono segnati da stelle e precisamente da a Aur (10909 mesi dall’origine), da a Tau (21780.5 mesi dall’origine) da a Psc (57883.5 mesi dall’origine) e da eventi particolari come potrebbero essere la fondazione di una città o l’inizio di un regno. Per i documenti della Grecia arcaica viene riferita un’ origine a 41075 mesi da quella posta nei Gemelli. Questo riferimento si ritrova in Dante nell’episodio del naufragio di Ulisse e nel poema di Parmenide, un filosofo greco del V secolo a.C. e nel riquadro di un’anfora ritrovata nell’isola di Milo.

Tuttavia se non fosse possibile ricondurre un evento storico a due origini, una a quella posta nei Gemelli e l’altra a quella secondo la cronologia storica, tutto questo sapere porterebbe solo ad un gioco letterario. Trovare che la guerra di Troia terminò a 44566.5 mesi dall’origine in Gemelli, come si può venire a sapere analizzando un famoso piatto rodio, raffigurante il duello di Menelao ed Ettore sul corpo di Euforbo, non produce conoscenza storica. Se invece si ha modo di convertire quell’informazione nella data del 19 luglio del 1184 a.C. allora per lo meno si pone il problema della sua coincidenza con la cronologia di Eratostene.

Il giovane Dante non accettò di partecipare solo ad un gioco letterario, ma volle perseguire la conoscenza storica, impegnandosi a studiare anche trattati arabi di astronomia, come quello di Al-Fargani. Il primo capitolo di questo trattato è proprio dedicato alle varie ère cronologiche. Per questa ragione la data della morte di Beatrice non ha solo un significato simbolico-letterario ma risulta essere quell’evento che permette di passare dal sistema arcaico basato sui mesi lunari alle date secondo la cronologia storica, quando il lettore della Vita Nuova abbia trovato i mesi che intercorrono dall’origine posta in Gemelli e l’evento simbolico-letterario della morte. Il sogno premonitore del primo sonetto A ciascun’alma presa e gentil core non fu compreso da nessuno, e persino Guido Cavalcanti che rispose con il sonetto Vedeste, al mio parere, omne valore non fu in grado di passare dal sistema arcaico dei mesi ad una data del calendario, anche se mostra nel verso vostra donna alla morte cadea, di aver correttamente interpretato il pianto d’Amore per la morte di Beatrice.

Il problema e la difficoltà dunque della composizione letteraria nella tradizione dei poeti latini e greci era rappresentato dalla necessità di comunicare l’espressione sessagesimale degli intervalli temporali mediante la struttura stessa della poesia, cercando di legare numero e rime, secondo quel programma stilistico-poetico esposto da Dante nel Convivio. Poiché gli intervalli temporali possono riferirsi ad almeno 5 grandezze diverse, dal mese lunare ai gradi di precessione ai giorni per il fulmine, lampo e tuono e i punti di riferimento temporale sono almeno tre si può valutare la difficoltà nell’individuare il sistema o i sistemi che l’autore ha applicato nel narrare quell’episodio. In questo modo nel testo letterario si ritrovano intrecciati poesia, un sapere analogo a quello scientifico e storia e in Dante questo intreccio è sommo.

Enea, Ulisse, Giasone

Dei tre personaggi legati ai tre poemi, l'Eneide di Virgilio, l'Odissea di Omero, e Le Argonautiche di Apollonio rodio, solo la figura di Ulisse, grazie al canto XXVI dell'Inferno, è rimasta nella cultura contemporanea. Se si fa una ricerca in Internet si potrà constatare che progetti scientifici di ricerca hanno l'intestazione del nome di Ulisse. Questa figura è divenuta il simbolo e l'emblema della libera ricerca scientifica, che supera i limiti posti o dalla tradizione o dall'autorità, come fece l'Ulisse di Dante, il quale, giunto alle colonne d'Ercole, incitò i suoi compagni ad oltrepassarle.

L'analisi di tutto il canto esigerebbe maggior spazio di quanto mi è concesso: quindi mi limiterò all'analisi del racconto di Ulisse fatto a Virgilio. L'obiettivo infatti è quello di mostrare come nella stessa organizzazione del racconto diretto, sia possibile rinvenire sequenze numeriche che devono essere lette come espressioni sessagesimali di intervalli temporali, secondo quel programma poetico-compositivo di tener insieme "numero e rime" affermato nel Convivio.

La studiosa Maria Corti, in un suo saggio dedicato al linguaggio poetico e Dante, ha mostrato come Dante non inventi gli elementi del racconto, ma riorganizzi materiali preesistenti, quali la tradizione di un viaggio oltre le colonne d’Ercole verso il polo sud, l’itinerario che segue la via di Ercole fino allo stretto di Gibilterra descritto dai geografi greci e la proibizione di oltrepassarlo che si ritrova solo “nelle descrizioni di geografi e storici arabi e ispanici”.

Dal punto di vista del pensiero filosofico i famosi versi 119-120 : fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza testimoniano forse di un dibattito sorto nell'ambito dell'aristotelismo medioevale e di un travaglio interiore del poeta riguardo alla scienza come ultima perfezione della nostra anima, affermazione che si trova all'inizio del Convivio (I,I,1), in quanto in questa perfezione consiste “la nostra ultima felicitade” (ivi). Se tutti naturalmente desiderano sapere, come mai il viaggio di Ulisse viene detto "folle volo" (Inf.XXVI,125) e termina in un naufragio? I momenti significativi del dibattito filosofico sono rappresentati dalla posizione di Averroè e da quella di Tommaso d’Aquino. Per chi volesse approfondire questi temi, rimando al saggio La “favola” di Ulisse: invenzione dantesca? di Maria Corti e al recentissimo saggio di Antonio Gagliardi , Tommaso D’Aquino e Averroè, un analitico confronto sul tema della visione di Dio.

All’inizio del canto ai vv. 19-20 troviamo un riferimento autobiografico: Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi. Quando penso a ciò che vidi, sia allora che ora provo dolore. L’ottava bolgia tutta splendente di fiamme in ciascuna delle quali era avvolto un peccatore apparve agli occhi del poeta. La visione lo induce però ad una riflessione sull’ingegno non guidato dalla virtù. In questo modo abbiamo la cifra del viaggio di Ulisse, che appare l’esemplificazione dell’abuso dell’intelligenza che seguendo senza vincoli l’ardore del sapere incendia totalmente l’anima intellettiva. Le fiamme dell’ottava bolgia sono l’immagine simbolica di questo incendio a cui va incontro l’intelletto non guidato dalla virtù ben diverso dalle fiamme della passione sensibile che inclinano la volontà. Solo l’influsso astrale benefico alla nascita, stella bona (v.23), dice Dante, o la grazia divina lo hanno preservato da tale abuso. Infatti il suo viaggio è un volo verso il cielo, quando dal Purgatorio passa al Paradiso, e nel secondo canto dell’Inferno il poeta manifesta a Virgilio il timore che il suo valore non sia adeguato all’alto passo cui il poeta lo ha sollecitato. Infatti egli non è né Enea né Paolo, sicché teme che sia folle, temerario seguirlo nell’al di là. Solo il racconto dello speciale intervento di Beatrice lo rassicura.

La menzione ad Enea ritorna ancora proprio all’inizio delle parole di Ulisse: Quando/ mi diparti’ da Circe, che sottrasse/ me più di un anno presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse, (vv-90-93). Il riferimento è un indubbio richiamo al viaggio e al naufragio di una nave dell’eroe troiano. A differenza di Ulisse, Enea si mise esule in alto mare con i compagni, con il padre e con il figlio, portando con sé i simboli della tradizione familiare e patria (Eneide, III, 11-12) e il naufragio della nave avvenne per la tempesta provocata da Eolo, su richiesta di Giunone (Eneide I,65-80), come si legge nel primo dell’Eneide, mentre per Ulisse l’ardente desiderio di divenire “del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore” (vv.98-99), fu più forte della “dolcezza di figlio”, della “pieta del vecchio padre” e dell’amore di Penelope. I vincoli degli affetti umani si sciolsero di fronte all’imperioso desiderio di conoscenza, rendendo tale desiderio già per questo insano e folle, come i limiti del mondo conosciuto dalla tradizione culturale in cui era nato e cresciuto non lo trattennero dal tentare un’ ultima avventura.

Il confronto di Ulisse e di Enea non tocca solo la differenza del loro viaggio ma i versi di Dante contengono nella descrizione del naufragio quasi un calco di due versi dell’Eneide che recitano: ma un’onda agendo tutt’attorno la nave tre volte la fa ruotare e un rapido gorgo d’acqua l’inghiotte, e nel testo latino: ast illam ter fluctus ibidem/torquet agens et rapidus vorat aequore vertex. (Eneide, I, 116-117) a fronte del verso dantesco : Tre volte il fé girar con tutte l’acque che appare quasi la traduzione del verso virgiliano. La “dolcezza di figlio” è ancora una reminiscenza di “dulcis natos” di Eneide II,138, che a sua volta forse riprende le parole di Ulisse ad Alcinoo: Perché niente è più dolce , per uno, della patria e dei suoi genitori (Odissea, IX, 34-35). Se ad Ulisse e ai compagni era apparsa una montagna, quella del Purgatorio, nei versi di Virgilio troviamo un’onda così alta da somigliare ad un monte (Eneide, I, 105).

Dante però dipende da Virgilio non solo per questi riscontri, ma anche per qualcosa di molto più importante. Nell’Eneide si trova sparsa tutta una cronologia relativa di eventi il cui inizio è dato dalla caduta di Troia. In una nota[3] di Carlo Carena, curatore della traduzione italiana di Virgilio, possiamo leggere l’inizio di questa cronologia relativa: Enea salpò dal porto di Antandro con 20 navi (I,381) da lui allestite; sette anni dopo (755 sg.) approderà in Africa con la perdita d’una sola (170, 393-400, 113-117; VI, 334-336). Era allora l’inizio dell’estate (III,8) dell’anno successivo a quello della fine di Troia, caduta nell’estate (cfr. Servio, ad Aen. II,255) del 1184, secondo il calcolo di Eratostene. Dante che conosceva il commento di Servio a Virgilio poteva sapere che Troia era caduta alla settima luna, sciendum septima luna captam esse Troiam si deve sapere che Troia fu presa alla settima luna quando al novilunio fu sfilato dall’esterno il chiavistello per liberare i guerrieri nascosti nel cavallo (Eneide II, 254-259).

Se ora osserviamo che la prima parte del discorso di Ulisse termina al verso 111, le parole rivolte ai compagni per incitarli ad oltrepassare le colonne d’Ercole terminano al verso 120 e al verso 142 si chiude il canto, procedendo per differenze successive dall’inizio al verso 90, si trova una sequenza di tre numeri, 21,9,22 con i quali esprimere in notazione sessagesimale l’intervallo temporale che situa rispetto ad una origine un tempo che può essere quello della partenza da Circe o quello del passaggio delle colonne d’Ercole. Poiché le parole rivolte ai propri compagni sono anteriori a quelle rivolte a Virgilio, il primo termine della sequenza è 9, il secondo 22, il terzo 21 e il quarto 30, indicando il quarto termine il mezzo mese. Il tempo così individuato si riferisce al passaggio delle colonne d’Ercole; il confronto con la cronologia relativa dell’Eneide fa emergere che Dante situa in sincronia con lo sbarco di Enea in Africa il passaggio di Ulisse alle colonne d’Ercole.

Il verso 108, dov’Ercole segnò li suoi riguardi, permette inoltre, mediante la differenza 142-108 = 34, di sapere i mesi di navigazione fino al naufragio; essi sono 34 e prima del naufragio la nave girò su stessa tre volte e alla quarta la poppa s’innalzò e la prora sprofondò nel mare. I termini numerici quattro e tre permettono di scrivere i gradi, i primi e i secondi (4° 3’ 12”) del tempo del naufragio rispetto ad un’altra origine, quella che si può chiamare greco-ittita, di cui c’è forse una testimonianza archeologica nella città di Velia, patria di Parmenide, nei versi del proemio del suo poema didascalico, composto nella prima metà del V secolo a.C., e in un famosissimo riquadro di un’anfora trovata nell’isola di Milo, raffigurante l’incontro di Apollo con Artemide, della metà del VII secolo a.C.

Cinque mesi prima del naufragio Ulisse passò l’equatore. Il verso che indica questo passaggio è Tutte le stelle già de l’altro polo/ vedea la notte, e il nostro tanto basso/ che non surgea fuor del marin suolo. (Inferno, XXVI,127-129). Anche il verso 127 con il numero del canto permette di situare il tempo del passaggio dell’equatore rispetto ad un’altra origine, quella seguita dai poeti latini, che fanno riferimento a Cupido, cioè a quando a Tauri, Aldebaran, segnava l’equinozio di primavera.

La cronologia relativa che gli studiosi d’oggi ritrovano nell’Eneide, per la particolare attenzione di Dante alla tecnica di organizzare i versi e di collegare numero e rima, diviene una cronologia assoluta e su quella cronologia egli compose i suoi versi per Ulisse, per Giasone, per Virgilio.

Tuttavia questa cronologia assoluta non può significare nulla di più di un gioco letterario, anche un perditempo se si vuole, se Dante non avesse trovato il modo di passare dal sistema arcaico di espressione dei tempi a quello calendariale, indicandone il modo con i cinque versi successivi alla invocazione alla diva pegasea del canto XVIII del Paradiso. L’ interpretazione di questi cinque versi infatti ci condurrà a vedere come il poeta riuscì a risolvere il problema della conversione degli intervalli in date del calendario giuliano.

Dante si trova nel cielo di Giove e descrive ciò che vede. Le anime come luci, disponendosi a formare lettere dell’alfabeto, scrivono i primi due versetti del libro della Sapienza: Diligite iustitiam/qui gubernatis terram, Amate la giustizia voi che governate la terra. Non solo vede la scritta ma la sente anche pronunciare. Questa scrittura sonora è il primo esempio, a mia conoscenza, di una descrizione di comunicazione che oggi si direbbe multimediale. Ciò che il poeta sottolinea è il numero di consonanti e vocali: Mostrarsi dunque in cinque volte sette/ vocali e consonanti; (Paradiso, XVIII, 88-89), suggerendo di distinguere il numero delle consonanti da quello delle vocali. Le consonanti sono diciassette e le vocali diciotto. Tutto il passo concerne l’arte poetica sotto il segno della diva pegasea, sicché dobbiamo interrogarci a quale grandezza si applichi la sequenza sessagesimale espressamente sottolineata di 17,18,35.

Se si leggesse questa sequenza come 17 gradi 18 primi e 35 secondi di longitudine di una stella, di a Piscium, che pare segnare astronomicamente l’era cristiana, si troverebbe l’intervallo di 15414.5 mesi che solo con una ulteriore informazione corrisponde a 73298 mesi dall’origine.

Il lettore che è giunto al canto XVIII dovrebbe già sapere che la stella dei Pesci segnò l’equinozio di primavera a 57883.5 mesi dall’origine. Sottraendo all’ intervallo di 73298 mesi ancora la medesima sequenza, indicante questa volta il numero dei mesi lunari, otteniamo 10983 mesi, che si esprime in notazione sessagesimale 3,3,3 mesi. A questo numero di mesi corrispondono 888 anni tropici. Questo è un dato significativo perché sia gli Oracoli sibillini, un testo giudaico-cristiano del II o III secolo d.C. sia Marco il mago, riferito da Ireneo, vescovo di Lione, riportano che la gematria del nome greco di Gesù porta al numero 888, otto centinaia, otto decine e otto unità.

Qui Dante vuole indirizzarci a cercare qualcosa che ritiene fondamentale per poterlo seguire. È necessario sapere che il numero otto nei monumenti della tradizione cristiana compare nei battisteri a pianta poligonale sotto forma dell’ottagono, e un ottagono, ricordo, è anche il duomo della roccia a Gerusalemme. La struggente nostalgia di Firenze dell’esule fiorentino è proprio rivolta al “bel San Giovanni” dove vorrebbe ritornare per ricevere l’alloro di poeta: proprio là dove con il battesimo cominciò il suo cammino nella fede, come possiamo leggere all’inizio del canto XXV del Paradiso.



Il battistero San Giovanni di Firenze quale fonte per Dante.

La scrittura sonora di luci nel cielo di Giove ci porta e ci indirizza pertanto a visitare il battistero, un edificio che sicuramente ogni studioso di Dante conosce, ma dalla cui visita non ha però tratto nulla di significativo per la formazione culturale del poeta, qualcosa che mostri cioè l’origine dell’eccezionale percorso poetico dalla Vita Nuova alla Divina Commedia.

In base al modello interpretativo che abbiamo esposto, con le sue premesse scientifiche sul calcolo del tempo e con la sua applicazione al canto XXVI dell’Inferno, ci si può subito rendere conto che la fonte per i versi 88-93 di Paradiso XVIII sia proprio il battistero San Giovanni a Firenze.

“All'esterno un unico motivo contraddistingue i vari registri definiti dagli ordini: nel primo ordine tre grandi specchiature bianche contornate di verde; nel secondo tre (quattro sopra la porta del Paradiso) archetti pensili finti come si crede oppure, come possibile, una sequenza di mirhab contornati di verde (...); nel terzo, ancora grandi specchiature bianche contornate di verde con la variante, rispetto a quelle del primo ordine, di una leggera incassatura delle grandi lastre rispetto al contorno verde,(..)”. Così scrive il curatore dello studio architettonico su S. Maria del Fiore, nel volume dedicato alla piazza, al battistero e al campanile di Giotto.

Nel terzo ordine, l’attico, le tre grandi specchiature sono a loro volta tripartite su tutti i lati. La zebratura dei pilastri è un rivestimento con tarsie di marmo bianco e verde, opera di Arnolfo di Cambio che operò a Firenze nel 1288 per la pavimentazione della piazza attorno al battistero e verso il 1293 per la sostituzione dei precedenti pilastri in pietra.

La persistenza del motivo della zebratura dei pilastri, suddivisi su due ordini, inducono a raccogliere secondo una tabella il numero delle tarsie bianche e il numero di quelle verdi dei pilastri angolari e vedere in quei numeri non la conseguenza casuale di un progetto semplicemente decorativo, ma quello intenzionale di un progetto comunicativo e informativo.

 

Bianco

9

9

18

Verde

8

8

16

Bianco

9

9

18

Verde

9

9

18

 

17 verdi 18 bianchi

17 verdi 18 bianchi

 

I due pilastri forniscono ciascuno 17 tarsie verdi e 18 bianche, mentre le due fasce totalizzano rispettivamente 16 tarsie verdi e 18 bianche la fascia superiore e 18 tarsie verdi e 18 bianche quella inferiore. La prima sequenza è quella principale, essendo ripetuta due volte. Si deve osservare che la porta est è stata rimaneggiata più volte e presenta una sequenza di cinque rombi a tarsia bianca con le due colonne spezzate aggiunte. Così possiamo affermare con un alto grado di certezza che la porta est del battistero e la tripartizione delle tre specchiature dell’attico indicano esattamente ciò che Dante descrisse e notò per la scrittura sonora nel cielo di Giove, cioè il tempo espresso da

T0 + 3,3,3 + 17,18,35 mesi = T0 + 20,21,38 mesi

Le consonanti corrispondono alle tarsie verdi e le vocali a quelle bianche.

Le porte del battistero sono tre e quella sud presenta ai rispettivi lati due rettangoli con 22 elementi con al centro due simboli, una stella a sei punte in un rettangolo e nell’altro, un cerchio sulla cui circonferenza si contano in modo continuo otto archetti disposti all’interno. Sono gli unici due simboli. Se all’intervallo precedente della porta est sottraiamo l’intervallo di 1,44,44 mesi della porta sud, andando così a ritroso nel tempo, otteniamo il tempo segnato da

T0 + 18,36,54 mesi
Una sequenza, questa, facilmente memorizzabile.

La porta nord assieme a due grandi specchiature contornate di verde collegate ciascuna da una tarsia verde presenta una successione di cinque rombi verdi all’interno di un rettangolo contornato di verde. I cinque rombi si trovano ai lati della porta. Se andiamo ancora a ritroso nel tempo sottraendo all’intervallo ottenuto con le due precedenti porte l’intervallo di 2,10,10 mesi della porta nord otteniamo il tempo calcolato rispetto all’origine posta in Gemelli di

T0 + 16,26,44 mesi

Solo Dante si domandò a quale data del calendario giuliano dell’èra cristiana corrispondesse l’ultimo intervallo e diede la risposta dopo aver studiato i trattati di astronomia. Le date possibili sono solo due o il primo plenilunio dell’èra cristiana o l’ultimo avanti l’èra cristiana. Calcolando poi a partire dal suo tempo la longitudine del Sole per quelle due lune e a partire dal tempo zero secondo la procedura arcaica di calcolo della longitudine del Sole in base al numero dei mesi trovò che la data richiesta era quella del 29 dicembre del primo a.C. alle ore 17. Così fu facile trovare che l’intervallo di 18,36,54 mesi dall’origine corrispondeva alla data del 8 giungo 632 d.C. nel cui anniversario è posta la morte di Beatrice.

I due rettangoli con 22 rombi a tarsia bianca del lato della porta sud, essendo due i rettangoli con il simbolo centrale di una stella a sei punte, permette di vedere che il tempo di 22,22,0 mesi è pari 6510 anni cioè a dieci cicli di Apollo, sicché a 2,14,12 mesi dopo la data dell’8 giugno 632 giungiamo alla fatidica data dell’ 11 giugno 1283, alla data del saluto di Beatrice, quando Dante compiva 18 anni. Il riconoscimento di questa circostanza suggerì al giovane poeta di legare un momento determinato della sua vita, il diciottesimo anno, alla cronologia arcaica e al sapere cosmologico implicito in essa, così i riferimenti autobiografici permettono l’accesso al sistema culturale arcaico. Da tale informazione, inoltre, veniamo a sapere che Dante nacque l’11 giugno 1265 e i versi di Paradiso, XXII, 112-120 permettono forse di precisare anche l’ora della nascita, ore 11 e di comprendere il vero senso del saluto di Beatrice: una grazia divina, E poi, quando mi fu grazia largita/ d’entrar ne l’alta rota che vi gira/ la vostra region mi fu sortita, così si esprime Dante rivolgendosi alle gloriose stelle. Queste sono le stelle che passarono al meridiano quando respirò per la prima volta l’aria della Toscana, quand’io senti’ di prima l’aere tosco, dice il verso 117, e determinarono con il loro benefico influsso il suo destino, ma fu una grazia giungere alla conoscenza che il plenilunio del suo diciottesimo anno si situava ad un ciclo di Apollo dalla data del 632.

Poiché i vv. 88-93 di Paradiso XVIII implicano la seguente equivalenza temporale:


Quando a Piscium = 17o 18' 35" a Columbae = 17,18,35 mesi

è possibile che Dante ritrovò ancora un altro modo per passare dalla cronologia arcaica dei mesi rispetto a diverse origini temporali alla cronologia storica del calendario giuliano. Infatti il simbolo della stella a sei punte posta nel rettangolo con ventidue rombi è da vedersi in rapporto alla stella dei Pesci che segnò l'èra cristiana nella primissima tradizione giudaico-cristiana fino a Tertulliano e presente nel capitolo IV dell'Apocalisse. Essa si trovò a segnare l'equinozio di primavera, cioé ad avere longitudine 0o a

22,0 mesi (22-6) giorni 6 ore prima del
31 dicembre 1 a.C. ore 24 = 1 gennaio 1 d.C. ore 00

La conversione degli intervalli temporali in date del calendario giuliano colloca il naufragio di Ulisse a venerdì 2 febbraio del 1175 a.C. e la presa di Troia a sabato 19 luglio del 1184 a.C., in conformità con i calcoli di Eratostene, che Dante non conosceva, e il passaggio delle colonne d’Ercole al novilunio del 4 maggio 1177 a.C. , sette anni lunari dopo la caduta di Troia.

Con questo risultato ci pare di poter sostenere che i codici di comunicazione della cultura arcaica sono molto potenti e il loro difficile riconoscimento non può essere frutto di una semplice lettura senza cultura e competenza. Tali codici si basano su quello che abbiamo presentato come la struttura aritmetica della cosmologia arcaica concernente il calcolo arcaico del tempo.

Lo studio, appena intrapreso, del battistero San Giovanni, quale fonte di conoscenza non solo per Dante ma per tutta la cultura fiorentina, fino a Giovan Battista Alberti e al pittore Botticelli, si sta rivelando molto importante e da esso ci ripromettiamo la conferma del catalogo stellare comunicato mediante miti, racconti e immagini, e altro che ancora non è stato riconosciuto.

Rimane una questione irrisolta. Essa riguarda quando e in che modo Dante venne a sapere che l’otto giugno del 632 d.C. del calendario giuliano corrispondeva alla data del 14 Rabi’ I dell’undicesima era islamica ed era la data della morte del Profeta Muhammad. La mancanza di una documentazione completa sulle conoscenze che i medioevali al tempo di Dante potevano avere della storia dell’Islam e delle sue dottrine non permette di rispondere con un grado sufficiente di certezza e, d’altra parte, a nostra conoscenza, non ci sono ragioni decisive per negare che un giorno Dante avesse acquisito tale informazione per propria ricerca e non per trasmissione orale, assolutamente non documentabile.

Si può, tuttavia, già affermare, a conclusione di questa lezione, che lo studio di Dante condotto con il modello interpretativo appena esposto permette di ritrovare a livello di sapere e di conoscenza ciò che tutte le tradizioni degli antichi ci hanno trasmesso; permette cioè di comprenderle nella loro genesi e nella loro struttura, dando la possibilità di coniugare innovazione e tradizione, altrimenti si rimane prigionieri o di uno storico rifiuto oppure di un irrisolvibile conflitto.


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[1] Et dum sic item per celum illud respiciendo Dei mirabilem mansionem, vidi cathedram ejus que, prout michi visum est, ita celo juncta erant quod et celum et ipsa cathedra simul videbantur creata fuisse.

[2] OMAR KHAYYAM, Quartine, a cura di Alessandro Bausani, Giulio Einaudi Editore, Torino, ristampa 2000, pag.35

[3] Nota 80 libro III


Studi danteschi


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