Giovanni
Ferrero Il secreto dell’arcangelo Gabriele Ermetismo e cristianesimo nella
genesi dell’opera di Dante secondo il
quadro cosmologico della Sapienza arcaica[1] Oh beati quelli pochi che
seggiono a quella
mensa dove lo pane de li
angeli si manuca! e miseri
quelli che con le pecore hanno comune cibo! (Convivio,
I,I,7) Premessa L’acqua
ch’io prendo già mai non si corse (Par.,II,7). Quando Dante scrive
questo celebre verso, non solo esprime la consapevolezza di aver compiuto un
singolare cammino, unico fino
allora, ma avverte anche il
lettore di non seguirlo, a meno che per tempo, fin dalla giovane età, egli non
si sia dedicato “al pan degli angeli”, a quel cibo di cui qui in terra non si
può provare sazietà: del quale vivesi qui ma non sen ven satollo (Par.II,11-12).
Se già all’epoca di Dante pochissimi sono coloro che possono seguirlo, noi lettori
di sette secoli dopo non abbiamo alcuna speranza, se già prima,
indipendentemente dalla sua opera, non abbiamo solcato quel medesimo mare.
Questo spiega perché prevalentemente la lettura di Dante si sia svolta e si
svolga sul piano della critica
letteraria e della storia della letteratura,e non su quello complessivo della storia della cultura, che esige
l’intreccio di diversi saperi e competenze, da quello scientifico a quello
teologico-filosofico, nonché l’educazione letteraria alla lettura. Se noi non siamo più il pubblico cui egli si rivolgeva, il che non può essere inteso solo in senso
ovvio e banale, allora è necessario tematizzare ciò che ha distinto in modo
irreversibile il nostro mondo dall’universo pubblico e personale di un
medioevale colto, quale fu Dante. Se non si ha, infatti, la consapevolezza che
la modernità fu anche una rottura epistemologica, che orienta ancora oggi il
nostro rapporto con le culture del passato, costituendo il quadro di
riferimento categoriale di ciò che per noi ha senso e non, allora non si è nemmeno in grado di sapere
quali mediazioni culturali siano necessarie per costruire il ponte o i ponti
con le culture del passato, senza attribuire, a loro difetto, la nostra incapacità a cogliere il senso tecnico di
un’espressione o di una metafora. Raramente, infatti, si trova l’ammissione che
una qualche espressione è letteralmente incomprensibile, l'ammissione cioè che
ci sfugge il contesto di informazioni necessarie entro cui essa risulterebbe
intelligibile. Così il “pan degli angeli” viene inteso giustamente come un
“sapere confortato dalla verità teologica e dalla contemplazione”, come si
legge in uno studio pregevole di Maria Corti[2], senza
però che sia detto di quale sapere
si tratti e senza che sia rilevato come l’espressione corrisponda al classico
“cibo degli dei”. Oppure avviene che si cerchi “ciò che è vivo e ciò che è morto” di un autore, la
sua attualità, in una parola, distinguendo, come fece il Croce, il momento
lirico-poetico da quello didascalico strutturale. Di fronte poi ad aspetti, che
paiono caduchi, si ricorre infine alla categoria storiografica della “mistica
dei numeri”, in realtà ad una etichetta di una bottiglia vuota, esprimendo nel
contempo disprezzo e archiviando
definitivamente un problema fastidioso. Quando, infatti, Dante insiste a più
riprese nella Vita Nuova sulla connessione del numero nove con Beatrice,
la critica invece di riconoscere semplicemente che si ignora il significato di
tale relazione, perché egli esplicitamente non la dichiara, vede in essa
l’espressione del gusto degli antichi per l’enigma, nel migliore dei casi,
oppure il portato caduco di un’epoca, di una mania di un’epoca o di una
tradizione, nel peggiore. Si
rimane inconsapevolmente nell'area delle categorie elaborate dalla modernità,
quando,ad esempio, si afferma che l'intento dello scrittore sacro per il
racconto sacerdotale della creazione (Genesi, I-II,3) non era
scientifico ma teologico-religioso. Certo, non era scientifico secondo quel paradigma del sapere dimostrativo elaborato dai Greci e
ripreso da Galileo, ma questo non implica che per accedere alla comprensione di
quel racconto non sia necessaria proprio la conoscenza di un linguaggio relativo a quel "gran libro della
natura", che per Galileo era
trascritto nei termini della tradizione matematica e astronomica greca
(Euclide, Archimede,Tolomeo), che invece per gli antichi della cultura
arcaica era trascritto nei termini
della tradizione della sophia, della sapienza, sorta, elaborata e
comunicata nel contesto delle civiltà orali, pre-letterarie. Se il sapere
scientifico di tipo matematico-astronomico è solo quello che si trova
esemplificato nei trattati ellenistici, nella tradizione araba e nella ripresa
copernicana e galileiana, lo storico delle culture arcaiche dovrà ricorrere,
allora, ad una competenza, altra e diversa da quella scientifica, per
comprendere i racconti antichi delle varie culture, cogliendone solo e la
dimensione antropologica e quella
linguistica e quella letteraria, slegate però da quel quadro cosmologico di
riferimento, da quel sapere, che ha costituito lo spazio per l'invenzione del
codice del racconto stesso. Ai nostri occhi e alla luce dei nostri
studi sulla cosmologia arcaica, la lettura di Dante esige non solo una
congenialità personale, come la lettura di qualsiasi altro autore, ma
soprattutto un incontro, frutto di un cammino e di un percorso di ricerche in
cui siano consapevolmente e criticamente presenti le molteplici implicazioni,
che la modernità, quale rottura con il passato e oblio dell’universo simbolico
delle culture passate, ha di volta in volta significato sul piano della ricerca
storica e filosofica. Il rapporto intricato di metodologia della conoscenza
storica e di consapevolezza filosofica della modernità o della tradizione deve
essere, se non risolto, almeno tenuto presente, assieme a quello ovvio della
necessità di rileggere, secondo i loro codici culturali, gli autori, che Dante
stesso cita, per recuperare quel mondo simbolico che non è più nativamente il
nostro. Il
cammino che ci ha portato a Dante parte da molto lontano, da una intuizione
sorta durante lo studio, negli anni 1975-1978, del proemio di Parmenide[3] e
relativa alla cultura arcaica. Quest'ultima ci apparve, nel corso degli anni,
sempre più definita
dall’invenzione di modalità iconico-narrative che servivano a memorizzare e
comunicare un sapere
cosmologico,mediante il quale gli antichi si orientavano nel passato, nel
presente e nel futuro. La costanza nel determinare e precisare
quell’intuizione, mediante l’individuazione dei vari codici culturali di tale
sapere e la loro traduzione nei
termini di un modello aritmetico di calcolo,ci permise una ricostruzione
formalmente completa[4], tale da
essere un algoritmo per un programma al computer. La struttura formale
di questo algoritmo circoscrive e corona l’ambito di quella sapienza
antica sulla cui base sorgevano i poeti e i profeti:i primi imitavano, con la
loro arte metrica, il coro delle Muse che accompagnava la musica di Apollo e i
secondi componevano inni di lode al Signore del cosmo e ne presagivano la presenza nella storia.Tale sapienza
implica, in termini platonici, una visione sinottica delle scienze che
confluiranno nel sistema medioevale del Quadrivium, come si rileva in
alcuni passi della Repubblica. Per
comprendere fin dove traspare tale sapienza, si può ricordare Boezio,
neoplatonico e cristiano che, rinchiuso nella torre a Pavia, attribuisce alla
Donna-Filosofia[5] che gli è appena apparsa, questo
singolare lamento: Questi,
che un tempo ne l’aperto cielo, seguendo
libero degli astri il cammino, contemplava
del sol la rosea aurora e
fissava l’algente astro lunare, e
gli erranti percorsi che ogni stella compie,
volgendosi per varie orbite, nei
numeri esprimeva vincitore; (...) ora
qui giace, spento il lume della mente, e,
stretto il collo da pesanti catene, il
volto fatto chino per il peso è
costretto, ahimè, a guardare la brutta terra. (De
Consolatione, I,II,6-12;25-27; trad.Luca Obertello)[6] In
questo lamento, sullo sfondo dell’antitesi letterale e simbolica di
cielo-terra, il contrasto di libero e incarcerato rimanda a due ordini di
realtà: infatti in quanto libero poteva vedere non solo il cielo sconfinato, ma
anche coltivare quelle discipline matematiche, che la tradizione pitagorica e
platonica richiedeva per la liberazione dell’anima dal carcere del corpo. Ciò
che la Donna-Filosofia rileva è il contrasto di chi, un tempo libero, eccelleva
nel determinare con i numeri la posizione del sole, della luna e dei pianeti,
gli erranti, in rapporto al corso delle stelle o delle costellazioni; in
rapporto, cioè, ad un intervallo temporale espresso dalla loro posizione: ora,
invece, con l’ingiusta incarcerazione nella torre, egli è costretto, non già a
rivolgere in virtù della propria statura eretta il suo sguardo al cielo, dove
si trovano le radici della sua anima, come si esprime Platone nel Timeo,
ma alla brutta terra. La
tradizione della cultura arcaica e classica tiene infatti unite nel medesimo
universo simbolico le due dimensioni, quello dell’orientamento di senso e
quello della competenza, che la modernità ha irrimediabilmente disgiunte,
relegando, la prima, alla sfera soggettiva della credenza e la seconda, a
quella intersoggettiva della scienza. Dalla
Vita Nuova al Convivio A
questa immagine della Donna-Filosofia, in quanto ricerca della sapienza, Dante si rivolse, ad un momento
cruciale della sua esperienza di letterato, mettendosi “a leggere quello non
conosciuto da molti libro di Boezio” (Cv,II,XII), come egli stesso dichiara nel
Convivio. Che cosa trovò Dante in Boezio? e perché si mise a studiare la
tradizione filosofica e frequentò le scuole dei religiosi? Saper rispondere a
queste domande è un primo passo per delineare l’ambito, il terreno su cui sorse
e si sviluppò l’opera dantesca. Quando egli descrive, nel Convivio,
l’abbandono della memoria di Beatrice, dopo la sua morte, per seguire un’altra Donna gentile, la Vita
Nuova era già stata diffusa,
sicché tutte le motivazioni che nel Convivio troviamo rispetto a questo
argomento debbono anche accordarsi alla precedente costruzione letteraria.
D’altra parte il tempo che viene descritto è anteriore allo stesso progetto di
raccogliere e ordinare le sue rime,
di commentarle e di chiosarle. E’ verosimile che alla morte della
gloriosa donna cantata nel libello già pubblicato, Dante dichiari di aver
voluto seguire le vie che altri han già percorso per “consolarsi”, e di leggere
quindi l’opera di Boezio e il
libro di Cicerone, dedicato a Lelio per la morte di Scipione. Però è solo
letterariamente verosimile e non biograficamente vero. Infatti se si leggono le
due opere, soprattutto la prima, non si trova nulla di più consolatorio rispetto alla fede religiosa che egli aveva ricevuta. Boezio,
apparentemente, nella tragedia di una imminente esecuzione per un’ingiusta
sentenza di morte, riesce a trovare ragioni, che a noi sfuggono, per svegliarsi
dal quel “letargo” in cui era
caduto, per ritornare alla contemplazione dell’ordine dell’universo a cui l’iter
di tutti i suoi studi l’aveva condotto. La
lettura di Dante dei filosofi non
fu facile, anzi! V’è l’ammissione di una difficoltà nell’acquisire il
linguaggio filosofico da parte di chi aveva condotto solo studi di Grammatica e
letture di poeti della tradizione latina e di quella volgare, ma essa venne
superata, grazie ad un impegno che appare determinato e costante, nel giro di
trenta mesi circa, secondo l’indicazione del capitolo XII del II libro.
All’inizio del II capitolo, invece, Dante aveva già dato un’altra indicazione,
astronomicamente più precisa:
dalla morte di Beatrice al sonetto Gentil pensero della Vita Nuova,
il quarto e ultimo di quelli dedicati alla Donna gentile, nel Convivio
reinterpretata come la Filosofia, il pianeta Venere aveva ripercorso per due
volte il suo epiciclo. Qui abbiamo la indiretta confessione che il vero motivo
della lettura dei filosofi non fu la ricerca di una consolazione per la perdita
di Beatrice. Ricorrendo alla
similitudine di chi andando alla ricerca di qualcosa trova ben altro, così
dichiara: “io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime
rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri” (Convivio,
II,12,5).Il che significa che in questo tempo Dante, frequentando “le scuole de
li religiosi” e “le disputazioni de li filosofanti” (Convivio, II,12,7),
acquisisce una competenza filosofica, teologica e scientifica, tale da ritrovare la medesima
congenialità che aveva con i testi della tradizione letteraria. C'è da
domandarsi se si tratta di una conversione alla Donna Gentile, dal momento che
viene dichiarata “ figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima
Filosofia” (Convivio,
II,12,9), oppure di una ricerca consapevole e intenzionale della sapienza nella
tradizione filosofica greca e in quella biblica e in quella cristiana, motivata
profondamente in modo da fargli superare l’iniziale e non lieve difficoltà. Che
cosa si cela dietro “il saluto di Beatrice”: “mi salutoe molto virtuosamente,
tanto che me parve allora vedere tutti li termini della beatitudine” (Vita
Nuova, III,1)? Quale evento di comprensione sconvolge Dante tanto da
ridurlo, lasciandosi guidare da esso, in una condizione debole e fragile da
suscitare, negli amici, rincrescimento preoccupato e, negli invidiosi, domande
su quello che egli “volea del tutto celare” (Vita Nuova, IV,1)?
L’ipotesi di lettura, sul rapporto del Convivio alla Vita Nuova,
che qui avanziamo, dipende sia da quanto in un inciso Dante stesso afferma a
proposito della seconda, sia dalla presentazione ben articolata della Filosofia
come ricerca della sapienza , di quella sapienza che era presso Dio alla
creazione, con un esplicito riferimento ad un passo dei Proverbi (IV,18)
ben noto anche nella tradizione liturgica (Convivio, III,15,16). Nel
raccontare le difficoltà incontrate, Dante rileva che esse furono superate sia
per la conoscenza dell’arte della grammatica, sia per il suo ingegno.
Quest’ultima osservazione parrebbe superflua, perché implicita in ogni riuscita
di impresa umana, senonché subito aggiunge un’annotazione preziosa: “per lo
quale ingegno molte cose, quasi come sognando,(corsivo nostro) già
vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere” (Convivio,II, XII,
4).Quelle molte cose che nella Vita Nuova vedeva sono le stesse che
cerca di esporre ed argomentare nel Convivio. La cultura della prima si
esprime come un’ars memoriae, mentre la cultura della seconda si basa su
di un’ars demonstrandi, comportando un mutamento anche nella stessa
modalità della memoria. Nella prima viene comunicato, quasi come sognando, ciò
che nel secondo viene argomentato con riferimenti ad autori, a testi e a
tradizioni. Il linguaggio del sogno è una conseguenza della metafora del libro
della memoria, che regge tutta quanta la
sua struttura, come il Singleton[7] ha
mostrato nel suo saggio, mentre il Convivio dipende dalla “metafora di
una mensa” sulla quale è dispensato con le vivande ( le canzoni) il pane (il commento). A quella mensa,
origine della metafora, dice di
non sedere, ma, essendo “fuggito de la pastura del vulgo” , solo raccoglie ai
piedi degli invitati le briciole che da loro cadono. Poiché sente una tale dolcezza
in quello che raccoglie, così prosegue la parabola dantesca con chiara
allusione a quella evangelica (Lc.,XVI,19-31),e conoscendo la miseria di quelli
che ha lasciato alle spalle, senza dimenticare se stesso, intende riservare
loro e apparecchiare “un generale
convivio” e distribuire quel pane “che è mestiere a così fatta vivanda” (Convivio,
I,1,9-15).”Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de
li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!”
(Convivio,I,I,7).Le scoperte allusioni bibliche e liturgiche di questa
pagina dantesca situano senza ombra di dubbio il piano su cui deve essere letta
e intesa la conclusione del tredicesimo e ultimo capitolo del primo libro: “Così
rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere
questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere
sufficientemente purgato da le macule e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le
vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno in migliaia,
e a me ne soperchieranno le sporte
piene. Questo sarà luce nuova,sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato
tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritate per lo
usato sole che a loro non luce.” (Convivio, I,13,11-12). Questo obiettivo che Dante si propone di
conseguire per i suoi lettori, cioè la comprensione rinnovata della tradizione
cristiana mediante la conoscenza della sapienza, scritta in volgare e non in
latino, non può essere il frutto accidentale di un incontro del letterato con i
filosofi e i teologi, ma il progetto intenzionalmente e costantemente
perseguito; un progetto strettamente legato a quel “saluto”, all’incontro del
poeta con la “gloriosa donna” della sua mente, dato che, “quasi come sognando”
per il suo ingegno molte cose aveva intravisto. Così
il Convivio non smentisce la Vita Nuova, alla quale egli non
intende “in parte alcuna derogare”, togliere cioè valore, ma è scritto per
maggiormente giovare alla comprensione di quel testo già pubblicato e diffuso,
con un linguaggio però più confacente all’età virile, con il linguaggio
consapevole della filosofia, a differenza di quello inconsapevole del sogno,
proprio della poesia. Quattordici dovevano essere le canzoni esposte e
commentate in altrettanti trattati, secondo l’ermeneutica della cultura del
tempo, cioè secondo i quattro sensi della Scrittura ( senso letterale,
allegorico, morale e anagogico, un “sovrasenso” quest'ultimo); quei trattati,
con il primo introduttivo, avrebbero costituito i quindici trattati del Convivio. Vivente non
pubblicò nulla, avendolo lasciato incompiuto al IV; lo fece però circolare in una ristretta
cerchia di amici; da quello
che è rimasto, già si può intravedere il grandioso progetto di rinnovamento
culturale a cui si dedicava, con una passione autenticamente civile, se “sempre
liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri
poveri” (Convivio, I,I,9), a differenza del ricco epulone che aveva
negato le briciole al povero Lazzaro. Questa passione si rivolgeva innanzi
tutto contro il tradimento di quegli intellettuali, esemplificati nei “malvagi uomini d’Italia, che
commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano” (Convivio,I,11,1)[8]. Filosofia
e Sapienza La
prima canzone di quattro stanze di tredici versi con un congedo di nove[9], già
nell’apertura, mostra come il concetto di filosofia in Dante sia completamente diverso dal nostro:
mentre per noi, da Cartesio in poi, problema filosofico fondamentale e
preliminare è quello della ricerca del fondamento della soggettività e della
società, in un mondo "paranoicamente" vissuto nella possibilità di
essere ingannati, per Dante, invece, il primo problema, quanto alla sua
esposizione, è quello, secondo la
terminologia scolastica, intorno alla natura delle sostanze separate dalla
materia, cioè le Intelligenze,“ le quali
la volgare gente chiamano Angeli”. C’è da dire che questa identificazione
delle sostanze separate con gli angeli del Vecchio e del Nuovo Testamento non
era dottrina comune: la negava Alberto Magno, quando in un certo senso
l’accettava S.Tommaso d’Aquino, come Bruno Nardi ha mostrato; forse dipendeva da Avicenna, che legava
la tradizione neoplatonica di Proclo con quella degli angeli. Interessante è la
distinzione tra i filosofi e i teologi che S.Bonaventura pone riguardo le sostanze spirituali,
Intelligenze motrici delle sfere secondo i filosofi, e Angeli nell'economia
della redenzione, secondo i teologi[10]. Il
capitolo terzo tratta del numero dei cieli, cominciando da Aristotele e da
Tolomeo, e l’ordine dei pianeti. Aristotele, secondo Dante, cadde in
errore, perché seguì in astronomia
solamente dottrine altrui e l’errore concerneva sia il numero delle sfere
celesti che la posizione del sole nell’ordine delle sfere. Tolomeo, poi,
per spiegare il moto precessivo
delle stelle, aggiunse all’ottava sfera una nona, il cui nome Cristallino
dovrebbe esprimerne la natura completamente diafana, trasparente. “Veramente,
fuori di tutti questi, - così continua Dante - li cattolici pongono lo cielo
Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso” (Convivio,
II,3,8). Questo cielo di fiamma,
stranamente somigliante al fuoco esterno della decima sfera di Filolao,
è il più alto “edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di
fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo, ma formato fu solo nella prima
Mente, la quale i Greci dicono Protonoè. Questa è quella magnificenza de la
quale parlò il Salmista quando dice a Dio: «Levata è la magnificenza tua sopra
li cieli»[Ps 8,2]” (Convivio,II,3,11). In questo notevole passo, Dante
compie non già una contaminazione di diverse tradizioni, ma una equivalenza a
livello di codici culturali, tra il codice culturale greco e quello biblico,
pone uno di quei ponti senza i quali non si dà, dal suo punto di vista,
comprensione della tradizione[11]. Poiché
le intelligenze motrici presiedono ai moti delle sfere, c’è, nel II e nel III libro, un continuo
riferimento all’astronomia. In questo egli dipendeva da Al-Fargani, un astronomo arabo del IX secolo, la cui
opera Chronologica et Astronomica Elementa (da Dante citato in 2,13,11: Liber de aggregationibus
) era stata tradotta in latino[12]. Il
capitolo IV è dedicato alla natura delle sostanze separate da materia e al loro numero, e alla loro funzione.
Incidentalmente vengono indentificate con gli angeli. Rispetto al loro numero,
riferisce la dottrina dei motori
immobili del XII libro della Metafisica di Aristotele e quella delle
“idee” platoniche. A queste aggiunge gli dei e dee dei gentili e dei poeti. La
rassegna di opinioni porta all’affermazione che “e per difetto di ragione e per difetto di ammaestramento”,
cioè di rivelazione divina, la verità intorno a tali nature non fu vista. Così,
passa all’esposizione della propria dottrina, che si discosta da quella
tomistica sulla perfezione di tali nature. La distinzione della vita attiva e
di quella contemplativa diviene il criterio in mano a Dante per sostenere una
perfezione costituitiva per alcuni
nel governo dei moti celesti, seguendo in ciò una tesi averroistica, e
di affermare per gli altri, molto più numerosi, la perfezione della vita
contemplativa. Quanto poi alla loro eccellenza, che va oltre “li occhi della
mente umana” , la ragione consiste che esse sono sostanze separate da materia,
quando invece per noi uomini, come afferma, “l’anima è legata e incarcerata per
li organi del nostro corpo” (Convivio,II,IV,17). Questa tesi
orfica-pitagorica-platonica dell’anima incarcerata nel corpo implica la
necessità di una specie di morte dell’anima, di un suo sciogliersi dai legami con il corpo, se si vuol
giungere alla visione delle cose celesti e spirituali; ha un significato forse più
morale-simbolico che ontologico. Cristologia
sapienziale Questo periodo di studi rappresentato
dal Convivio è quello in cui la Filosofia, nel simbolo della Donna gentile, non si contrappone come
scienza umana alla rivelazione divina, ma, come Bruno Nardi[13] ha ben
caratterizzato, si identifica con quella sapienza, le cui tracce si trovano in
Aristotele, in Cicerone, come conoscenza delle cose umane e divine, e in
Boezio, letti forse, aggiungiamo, con occhi arabi, la cui pienezza si trova
nella Sapienza della tradizione ebraica (Salomone) coronata dalla dottrina del
Logos del IV Vangelo. Ciò che però ci pare sia sfuggito al Nardi è la funzione
della “cristologia sapienziale”, decisamente affermata all’inizio del V
capitolo del II trattato e il ruolo dell’angelogia nell’economia della
rivelazione. E qui siamo giunti a quello che più conta per Dante e all’inizio
per la sua comprensione secondo la nostra ipotesi di lettura. Dante
ha cura di distinguere la tradizione filosofica e letteraria dei Gentili dalla
tradizione ebraica, e questa da quella cristiana. Gli antichi non videro la
verità intorno alle creature spirituali, eccetto, in parte il popolo d’Israele,
“da li suoi profeti ammaestrato” e i cristiani. La rassegna delle dottrine
intorno alle creature spirituali e intorno ai loro cieli, con i minimi riferimenti astronomici
necessari, induce a far attenzione invece alla ragione, e soprattutto al modo,
secondo il quale Dante afferma che nella rivelazione della tradizione cristiana
si dà la verità intorno alla natura delle creature spirituali. ”Ma noi semo
di ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui
che le conserva, cioè da lo Imperatore de l’universo, che è Cristo, figliuolo
del sovrano Dio e figliuolo di Maria vergine, femmina veramente e figlia di
Ioachino e d’Adamo: uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita.
«Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre», sì come dice Ioanni
Evangelista; e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui
non potevamo, né veder veramente.” (Convivio, II,V,2-3). In
questo notevole passo non c’è solo una tradizionale professione di fede, ma c’è
il modo in cui Dante intende lo stesso cristianesimo, la genesi stessa della
fede neotestamentaria. In esso viene affermata: 1) la connessione intrinseca
della dottrina cristologica all’ «imperatore de l’universo», cioè il
rapporto della dottrina del Messia
con il sovrano dell’universo 2) l’affermazione che il Messia è un vero uomo
morto in croce; infine, 3) che quel sovrano dell’universo, uomo vero morto in
croce è la luce che illumina ogni uomo, con un riferimento conclusivo al
prologo del IV Vangelo. La theologia crucis, appena accennata da Dante,
è incastonata tra due affermazioni, di cui la prima è la premessa storico-
dialettica della seconda. La dottrina del Messia, cioè la cristologia, rimanda
alla dottrina della creazione mediante i riferimenti alla sapienza. Pertanto la
theologia crucis (dottrina della redenzione) è retta e deve essere retta
da una theologia gloriae in
base alla identificazione della
sapienza originaria del Creatore con il Logos del IV Vangelo. Nel cap. XIV del III trattato del Convivio
c’è consapevolmente questa
identificazione. Qui non c’interessa sapere da quali fonti egli dipenda, ma
osservare che essa esplica il primo punto di quella professione di fede. “ ché
la sapienza, ne la quale questo amore fère, etterna è. Ond’è scritto di lei
«Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel secolo che dee venire
non verrò meno» [Ecclesiastico,24,14] e ne li Proverbi di Salomone essa
Sapienza dice: «Etternalmente ordinata sono» [Proverbi,8,23]; e nel
principio di Giovanni, ne l’Evangelio, si può la sua etternitade apertamente
notare.” (Convivio, III,14,7). Il riferimento alla umanità e alla morte
del Messia è fondamentale per evitare il
docetismo e risolvere la soteriologia in una pura gnosi, tuttavia data
la sua implicazione eminentemente spirituale, cioè di coinvolgimento personale
in rapporto alla vicenda temporale di Gesù, tale riferimento non viene
ulteriormente sviluppato da Dante, essendo egli coinvolto nella scoperta della
sapienza, cioè di quella theologia gloriae che sparì nell’epoca moderna,
ad opera soprattutto del luteranesimo[14]. Le
conseguenze di questa scomparsa si faranno sentire nella riduzione tutta
moderna della rivelazione cristiana a puro fatto positivo, a religione
positiva. Solo Hegel cercherà di inglobare nella fenomenologia della coscienza
la storia della salvezza per superare l’antitesi kantiana di credere e sapere. Che
rapporto c’è dunque tra la cristologia e la cosmologia, rapporto chiaramente
indicato dai passi citati da Dante? Come deve essere intesa la cristologia
sapienziale, in base alla quale, ad esempio, il protomartire Stefano vide
aprirsi i cieli e il Figlio dell’Uomo alla destra del Padre, come si legge
negli Atti degli Apostoli? L’inizio
per poter comprendere questo rapporto si trova nell’ apocalittica giudaica,
nella connessione già rabbinica, del tempo del Messia con la dottrina del Genesi,
e precisamente con il versetto 2 del primo libro. Ora, in rapporto a questa
problematica Dante fa una sorprendente affermazione, che si trova continuando
la lettura di quel passo del Convivio. In rapporto alla verità delle
creature spirituali, “La prima cosa e lo primo secreto che ne mostrò fu una
de le creature predette: ciò fu quello suo grande legato che venne a Maria,
giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanator celestiale.” (Convivio,II,V,4).
L’arcangelo Gabriele è la prima cosa e il primo secreto, ci dice Dante,
in relazione alla conoscenza
dell’imperatore de l’universo, il Cristo, il Messia profetizzato ed atteso. Qui
si devono porre alcune domande. Il secreto dell’angelo concerne il
contenuto dell’annuncio, di per sé chiaro, oppure, essendo egli
costitutivamente l’angelo dell’annuncio è, per questa ragione, nel quadro di
quella sapienza, anche la guida ad
essa, rivelando con sè stesso ciò che implica secondo la storia del cosmo il
suo annuncio, cioè il tempo dell’evento? Il
secreto dell'angelo e il
saluto di Beatrice Poi,
che rapporto c’è tra questo secreto, riferito all’arcangelo e il secreto
che il poeta dice di celare in tutti i modi nella Vita Nuova, relativo a
Beatrice, a colei che, avendolo salutato, è divenuta la donna della salute?
Dobbiamo pensare ad una proporzione, ad una analogia: il saluto dell’arcangelo a Maria sta ad essa, come il saluto
di Beatrice sta al poeta? Per
questo, di essa Dante dice nel sonetto, ad un anno esatto dalla morte di lei, fu
posta da l’altissimo signore nel
ciel de l’umiltate, ov’è Maria (Vita
Nuova,XXXIV) oppure, che “il nome di quella
regina benedetta virgo Maria,” “fue in grandissima reverenzia ne le parole di
questa Beatrice beata” (Vita Nuova, XXVIII,1)? Con
queste domande possiamo cominciare ad affermare che Beatrice, forse, per una nascosta relazione con l’arcangelo
Gabriele, potrà assumere la medesima sua funzione di guida nell’accompagnare il
poeta nella terza cantica, funzione di guida propria dell’angelo, come si trova
nell’apocalittica giudaica e nell’esperienza filosofica e mistica dei sufi
iranici, che si collegano a Platone e ad
Hermes, e in quella degli
ismailiti, nonché in quel viaggio notturno di Muhammad appena accennato
nel Corano (XVII,1). Il
saluto di Beatrice ci appare a
questo punto non solo il premio che il poeta di un mondo cortese può attendersi
dalla donna che egli canta, ma soprattutto la sapienza che rivela quel secreto
che riguarda l’angelo che annuncia la nascita del Messia e l’inizio del regno
escatologico: Angelus Domini nuntiavit Mariae... Se l’amore suscitato
dalla bellezza di una donna è il sentimento o la passione che trasforma la vita
di un uomo, allora la storia ben esile di questo eros è solo il simbolo di una esperienza
innovatrice ben più profonda: quella per cui tutte le antiche parole della
tradizione risuonano come nuove nell’universo rinnovato di un cielo e di una
terra vera ,aperto da quel simbolico saluto. La storia raccontata, senza essere
negata nella sua lettera come
vicenda, diviene, per l’arte dello scrittore, che si istituisce e affina nell’approfondimento di questa esperienza,
il sistema espressivo del dischiuso universo simbolico e della conoscenza e della
visione. La
forma letteraria della tradizione sapienziale Possiamo
ben dire ora, con Dante, udite
il ragionar ch’è nel mio core, ch’io
nol so dire altrui, sì mi par novo; (Convivio,II,I,5,2-3) e tentare di rispondere alle
precedenti domande, sia pure con tutte le limitazioni di dottrina e di cultura
che lo svolgimento di tale arduo assunto farà emergere, mostrando la loro
pertinenza per comprendere il poliedrico e articolato spazio, in cui si situa la
genesi complessa dell’opera di Dante. Il
primo passo richiede che si intuisca almeno la struttura formale di quello che
abbiamo chiamato il modello aritmetico della cosmologia arcaica [15],
coronamento della tradizione sapienziale. Noi
siamo abituati, come cultori della civiltà del libro, ad intendere e ad esprimere i modelli del
sapere mediante affermazioni astratte, teoriche, distinguendole dal loro campo
di applicazione. Per la cultura arcaica non c’è teoria astratta dal suo
esempio, non c’è la definizione astratta della giustizia, ad esempio, in base
alla quale giudicare un comportamento, ma c’è il racconto esemplare di un
comportamento ingiusto o giusto in quella determinata situazione narrata dal
racconto, come si può vedere nell’Iliade e nell’Odissea, letti
come documenti di una civiltà pre-letteraria. Qui si inserisce la questione
oggi molto dibattuta del rapporto tra cultura orale e cultura scritta
nell’antichità. Così non c’è il manuale della cosmologia arcaica, ma il
racconto di un evento esemplare, per la cui determinazione temporale è
necessario sapere il punto di partenza, il tempo zero e l’intervallo temporale
a partire dall’origine e la posizione del sole e della luna nel sistema delle
stelle fisse, mediante un sistema
semplice di calcolo. Ora se
anche si sapesse calcolare con il sistema arcaico, ma non si conoscessero le
origini temporali, un tale sapere non porterebbe a conoscenza di eventi e
soprattutto non sarebbe un sistema di controllo nella lettura di un testo.
Essere di una tradizione culturale arcaica o classica significa sapersi
orientare rispetto alla origine temporale, saperla esprimere mediante i suoi
codici culturali. Il
codice delle misure temporali Il sistema di calcolo si basa sul numero
dei mesi trascorsi, o che devono ancora trascorrere, tra l'evento narrato e il
momento di inizio del computo del tempo in cui tale evento si situa. I modi,
però, di indicare tale intervallo temporale, oltre all’anno e ai giorni,
generalmente non impiegati, è dato da un sistema di quattro equivalenze,
che non sono più state usate
nell’astronomia geometrica greca e moderna. Solo per le stelle si sa che la
loro longitudine è una funzione temporale, dato che aumentano di cinquanta e
rotti secondi all’anno, effetto della precessione degli equinozi
L’organizzazione delle misure temporali nell’universo arcaico ruota infatti
proprio attorno a tale precessione, come hanno cercato di mostrare Giorgio de
Santillana e Hertha von Dechend nel loro saggio Il mulino di Amleto, saggio
sul mito e sulla struttura del tempo.[16] La
cosmologia arcaica, pertanto, è essenzialmente una cosmocronologia basata sul
sistema di esprimere l’intervallo base del mese lunare mediante un sistema di
equivalenze. Così, il numero 21, ad esempio, può implicare la sua equivalenza
con l’intervallo di 18404 mesi
lunari, corrispondenti a 1488 anni solari (tropici), durante il quale il polo
dell’universo compie un arco di 20° 40' con 80 rivoluzioni dei nodi ascendenti
lunari. Il punto equinoziale si
sposta con lo stesso angolo in senso retrogrado, facendo così aumentare
proporzionalmente la longitudine delle stelle. Il numero 21 è la differenza in
giorni tra anno sidereo e anno tropico presa 1488 volte. Questa differenza
nella cultura arcaica si chiama tecnicamente fulmine; con esso Zeus governa gli enti, come un noto
frammento di Eraclito recita. Poiché al fulmine sono connessi sia il lampo
che il tuono, anche questi sono armi di Zeus. Nella cultura biblica essi
sono legati al trono di Dio, da cui escono voci, tuoni e lampi come è detto
nell’Apocalisse, con un implicito riferimento alla teofania sul Sinai.
Il quadrato che congiunge i punti equinoziali e solstiziali nel cerchio
apparente del percorso del sole, ha il nome tecnico di terra (“emersa” :
dall’equinozio di primavera all’equinozio di autunno), o terra vera o terra
celeste, e poiché tali punti si spostano
perché l’equatore celeste interseca, l’anno successivo, in un altro
punto il cerchio del sole, si ha un moto della terra che è propriamente un terrae
motus, che non si riferisce ai movimenti tellurici di quaggiù, ma
all’espressione di intervalli temporali in base alla precessione annua degli
equinozi. Su questo principio, Newton stesso cercò di riscrivere una cronologia
degli antichi, ricevendone l’elogio da Voltaire, basandosi sulle misure di
longitudine delle stelle che trovava o credeva di trovare nel commento di
Ipparco ad Arato o nei racconti dei miti. Però questo sistema si può applicare
solo se si ricostruisce contemporaneamente, mediante l’individuazione del
codice di comunicazione del sapere arcaico, il catalogo stellare per il tempo
zero, il tempo dell'origine, e non se si misura la longitudine delle stelle o
si fa un confronto tra due misure. Infatti si dà sempre l’approssimazione o
l’errore nella misurazione. Per questa ragione un autore antico non può
permettersi di apportare variazione alcuna nei dati costitutivi il sapere
tradizionale, che riscopre mediante lo studio degli autori della sua
tradizione, altrimenti non sarebbe neppure compreso e fallirebbe la
comunicazione. Così per dire il
tempo di un evento è necessario sapere la situazione dell’origine, e quanto tempo
sia passato da allora. Il
racconto della creazione e la profezia messianica Il
rapporto stretto tra la dottrina della creazione, la profezia del Messia e il
tempo del sua venuta si dispiega nella sapienza che dice 1) come sia
fatto il mondo 2) come il tempo
proceda 3) come venga espresso. Argomenti questi che appartengono ad una
particolare filosofia della natura, che esplicita l’origine delle metafore e
dei simboli della tradizione biblica. Ciò che è fisso è il piano su cui si
muove apparentemente il sole, il
cui nome tecnico secondo il mito è la terra e secondo il linguaggio scientifico
attuale è l’eclittica. Così non è più una metafora dire che il trono di Dio si
trova nel cielo e la terra è lo sgabello dei suoi piedi, come si legge
nell’ultimo capitolo di Isaia, il 66mo con 24 versetti, perché c’è un
isomorfismo tra il polo e il trono e la terra e l’eclittica. Dante si dilunga
alquanto, nel cap. V del III trattato del Convivio, sull’equatore della
sfera del sole, cioè l’eclittica, inclinata sull’equatore del cielo delle
stelle fisse di un angolo di 23° e “uno punto più” (Convivio,III,5,14).
Si osservi che qui Dante usa il termine “punto” nel significato astronomico
greco di 30' o mezzo grado. Per la tradizione sapienziale quell’inclinazione era
di 24° sicché il polo delle stelle fisse si trova a 66° di latitudine nord, per
le regioni boreali, e a 66° di latitudine sud per le regioni australi. Per dire
il tempo della venuta del Messia è sufficiente descrivere la struttura
dell’universo, regolata da quell’angolo di 24° di inclinazione dell’equatore
della sfera del sole,
sull’equatore della sfera delle stelle , perché le grandezze numeriche che
esprimono l’intervallo temporale, come valori angolari di precessione, sono
quelle che definiscono la struttura cosmografica dell’universo: il polo celeste
si trova a 66° di latitudine; dista dal polo dell’eclittica 24°. Perciò
l’intervallo temporale misurato da 66° 24' 48", come si può vedere
leggendo il capitolo IV dell’Apocalisse[17], la cui
visione descrive precisamente i
ventiquattro anziani seduti sui ventiquattro troni attorno al trono
centrale, definisce in modo sapienziale quando sarà la fine dei tempi e
l’inizio del regno escatologico, cioè il tempo della nascita del Messia,
annunciato dall’arcangelo. Non si può sapere quale sia la data, secondo la
nostra cronologia, corrispondente a questo intervallo temporale, espresso
secondo una misura angolare, a meno che già non si sappia la corrispondenza dell'inizio, del tempo zero, alla
nostra cronologia o qualsiasi altra corrispondenza. Si vedrà come Dante
fornisca questa corrispondenza, necessaria per passare dal sistema
cronocosmologico arcaico a quello adottato nell'era cristiana dopo l'errore di
Dionigi il piccolo riguardo l'anno di nascita di Gesù rispetto all'anno di
fondazione della città di Roma. Anche senza l'errore di Dionigi il piccolo,
assumere come punto di riferimento la fondazione di Roma[18] equivale
a nascondere l'accesso al codice della tradizione biblica e cristiana. Tale
nascondimento è conseguenza del processo di "romanizzazione" del
cristianesimo, avvenuto sul piano istituzionale, ed è parallelo a quello di
"ellenizzazione", avvenuto sul piano del modello culturale. Dal
punto di vista tecnico la storia della salvezza orientata verso la fine dei
tempi, che si compie con la nascita del Messia, non si distingue da quella che
vede il proprio presente in rapporto ad un origine costitutiva nel passato,
perché l’intervallo temporale, derivante ed esprimente la struttura stessa
dell’universo, ha un senso solo se viene applicata ad un’origine temporale.
Infatti si dovrà dire che i tempi saranno compiuti quando si sarà verificata un
certa condizione a partire da un’origine. Questo non significa che non vi sia
differenza culturale tra l’esperienza della temporalità incentrata sulla
speranza di un evento futuro, misurato già da quella stessa sapienza che
accompagnava Dio al mattino del mondo, e quella incentrata nel ricordo di un
origine. Non si deve però pensare l’attesa messianica, né come un’attesa utopica né come il ritorno
ciclico di una situazione astrale. Il Natale significa quell’unico evento, la
cui espressione temporale può essere detta prima ancora della creazione del
sole, della luna e delle stelle, perché implica solo la struttura cosmografica
dell’universo. Il virgiliano iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna della IV Ecloga
esprime una prospettiva ben diversa dalla riflessione apocalittica sul Genesi,
anche se nei secoli cristiani esso venne considerato “profetico”, Infatti il
ritorno in terra della Giustizia, rifugiatasi nella costellazione della
Vergine, potrebbe essere stato assimilato al preannunciato regno di giustizia
dei tempi escatologici. Ciò
che abbiamo prospettato come il rapporto tra la struttura cosmografica
dell’universo, compresa nella sapienza e il tempo della nascita del Messia alla
fine dei tempi, si può ritrovare in un passo di S.Bonaventura, il cui senso è
il medesimo: «Tutta la filosofia naturale mette in evidenza, secondo un
rapporto di proporzione, la Parola di Dio nata e incarnatasi per essere l’Alfa
e l’Omega, nata cioè in principio e prima del tempo, ma incarnatasi alla fine
dei tempi»[19]. Si osservi come sia la filosofia
naturale, e quindi la cosmologia, e non la teologia a mostrare in modo
analogico la tesi affermata.
Tav. 1 Confronto tra la struttura geometrica e simbolica della
miniatura con la mappa cosmografica. P è il polo celeste attorno a cui ruota il
cielo (equatore celeste e circolo di declinazione di 24°) p è il polo
dell'eclittica. I due circoli che si intersecano sono quelli di declinazione e
di latitudine di 24°. Il polo P mentre il cielo ruota si sposta in senso
contrario lentissimamente di 50" per anno tropico sul "percorso della
precessione". Questo movimento è implicato nel testo biblico in Gen.I,2.
I due circoli di declinazione e di latitudine più piccoli sono le due corone
dei beati descritte da Dante in Paradiso XIII. La stretta connessione tra il
racconto della creazione, la meditazione sapienziale sulla medesima e la
profezia di Isaia, significa da un
lato, che il Creatore del cielo e della terra è anche il Signore della storia e
implica dall’altro, che la redazione del racconto sacerdotale del Genesi
deve ricondursi al tempo di Ezechia dopo la conquista assira del regno di
Israele nel 722 a. C. perché la
profezia risulta da un’ approfondimento della cultura di quel racconto.
Per una ragione diversa da quelle esposte da Richard Elliot Friedman[20],alcune
delle quali potrebbero non essere condivise, anche noi pensiamo che il racconto
sacerdotale della creazione sia da ascriversi all’inizio del regno di Ezechia,
che con la sua riforma religiosa segnò una centralizzazione del culto a
Gerusalemme. Non sembri, questa una digressione fuori luogo, perché potrebbe anche
esserci la sorpresa leggendo
Dante, che nella visione dei sette candelabri (simbolo del culto giudaico) e dell’arrivo del carro nel
paradiso terrestre egli, in realtà, descriva una situazione planetaria ed uranografica coincidente con
l’inizio del regno di Ezechia. Cosmologia
e angelologia Il
Natale risulta l’unico evento storico-cosmico, la cui profezia esprime
quella sapienza originaria. Tuttavia se non venisse precisata l’ origine
risulterebbe del tutto indeterminato il tempo del suo accadimento. L’angelogia,
che Dante mette in corrispondenza con l’ordine delle nove sfere, seguendo
l’ordinamento di S. Gregorio Magno (Moralia in Job. XXXII, 48) concerne
non solo la liturgia celeste di
lode del Creatore,- significato spirituale e religioso - ma in quanto gli
angeli sono annunciatori, annunciano il tempo dell’evento, e lo possono
annunciare perché segnano il tempo fino dall’origine. Se abbiamo correttamente
indicato il significato della riflessione apocalittica sul Genesi,
allora risulta precisata la natura della loro funzione, che non è solo quella
di cantare le lodi al Creatore, ma di indicare agli uomini i tempi,
conducendoli di sfera e in sfera fino all’origine, come fa Beatrice con Dante e
l’arcangelo Gabriele con Enoc. Infatti solo dall’origine si può vedere lo
svolgimento della storia. Si ricordi quando Dante raggiunge la costellazione
dei Gemelli. Da queste premesse una conclusione si impone. E’ necessario
identificare gli angeli con le stelle fisse come è esplicitamente affermato
nell’Apocalisse. Non già le
stelle in quanto segnali luminosi visibili di notte, ma la loro longitudine che
risulta solo con l’introduzione del sistema delle sfere, di quella delle stelle
e di quella del sole, essendo la longitudine l’arco preso sul cerchio del sole
partendo dal punto di intersezione dell’equatore celeste con il medesimo
cerchio. Se la corrispondenza
degli ordini angelici con il sistema delle sfere non implicasse tecnicamente questo,
allora la complessa struttura cosmologica, descritta da Dante e da altri prima
di lui, sarebbe del tutto superflua ed anche ingombrante. Infatti con la
rivoluzione copernicana e con quella galileiana, l’antica struttura cosmologica
scomparve trascinando nell’oblio tutto ciò che di tecnico era connesso alla
funzione simbolica del cielo. A ben guardare con la “tellurizzazione del cielo”
operata da Galilei - con la sua critica al presupposto aristotelico sulla natura celeste sostanzialmente diversa
da quella sublunare - l’uomo moderno si trovò senza più un cielo che lo
orientasse simbolicamente, non percependone più né l’antica armonia né
l’incessante coro degli angeli, ma solo, pascalianamente, il silenzio eterno
degli spazi infiniti. E’ comprensibile che non si fosse più ricercata
l’implicazione tecnica sul piano cosmocronologico che la tradizionale dottrina
sugli angeli aveva comportato, apparendo questa tradizione solo legata alla
pietà religiosa popolare. Naturale è ora
la perplessità a fronte di una tesi e di una prospettiva, che, in forza
delle premesse poste, conduce a ricercare, addirittura, un vero e proprio catalogo stellare
relativo al tempo zero in testi della tradizione letteraria e religiosa antica
e medioevale. Certo non un catalogo stellare con la forma moderna del
catalogo! Solo se si coglie la
modalità peculiare di comunicare valori numerici nei testi della tradizione
letteraria classica - si pensi ai metri di Boezio e al lamento della Filosofia-
solo allora si potrà cogliere la verità della tesi e la grandezza somma di
Dante. La
comunicazione del sapere scientifico Da
dove cominciare e che cosa cercare per trovare valori di longitudini di stelle?
Una geniale osservazione del Singleton ci dà il punto di partenza per
presentare in modo non totalmente nuovo la nostra ricerca e i nostri risultati. Egli,
nel già citato capitolo “Il libro
della memoria”, sulla cui metafora si ordina la scrittura della Vita Nuova,
ha ben colto il significato culturale,
ma non quello tecnico, delle divisioni delle poesie che si trovano nell’opera,
così argomentando: ” Ritengo tuttavia che né potremo
spiegarci la presenza delle divisioni nella Vita Nuova né vedere come
esse facciano parte della metafora del Libro della memoria, se non siamo
disposti ad accettare l’idea che il modo in cui si guarda una poesia può essere
una “imitazione” del modo in cui si guarda il mondo; e ciò proprio per il
motivo che una poesia può (o forse dovrebbe) essere un’imitazione del mondo” [21]. In altri
termini, come il libro della memoria rimanda al libro dell’universo, e a
quell’altro libro che è la Bibbia, così, se la poesia è imitazione del modo in
cui il medioevale guardava il mondo come libro della creazione, come
manoscritto cifrato di Dio, le sue suddivisioni, rimandano precisamente a
successioni numeriche significative nel contesto del libro della natura, letto
e contemplato, però, con gli occhi di quella sapienza con cui Dio lo aveva
creato al principio. L’analisi della canzone centrale Donna pietosa e di
novella etate mostrerà la verità di questa tesi senza ombra alcuna di
dubbio. Seguiamo
la magistrale presentazione del Singleton: “Come
abbiamo osservato all’inizio, la terza visione è quella che occupa il centro
della Vita Nuova (capitolo XXIII) ed è carica di significato per la
struttura della opera nel suo complesso. Già il fatto che essa giunge al nono
giorno di una malattia del poeta è un segno indicativo. Il dolore fisico, quel
giorno molto aumentato, lo aveva fatto pensare alla fralezza della sua vita e
da questo pensiero era stato quindi condotto a riflettere che un giorno la
gentilissima Beatrice sarebbe dovuta necessariamente morire. Fu allora che «gli
giunse un sì forte smarrimento» che chiuse gli occhi, entrando in quello che
sembrava una specie di delirio. Nella narrazione è notevolmente sottolineato il
fatto che quanto egli vede ora non può essere altro che il frutto di
un’immaginazione malata, il vaneggiamento di una mente febbrile. Prima gli
appaiono volti di donne scapigliate, che gli dicono: «Tu pur morrai»; poi,
altri orribili visi, che gli si rivolgono dicendo: «Tu se’ morto».”[22] L'esperienza
apocalittica della rivelazione Fin
qui il Singleton. La prosa di Dante così dice: “Così cominciando ad errare la
mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse[23], e vedere
mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste;
e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore
ch’elle mi facevano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando
per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti.” (Vita
Nuova, XXIII,5).A questo testo in prosa corrispondono nella canzone i vv.
49-56: Poi
mi parve vedere a poco a poco 50 turbar lo sole
e apparir la stella, e pianger elli ed ella; cader
li augelli volando per l’are, e
la terra tremare; ed omo apparve scolorito e fioco, 55 dicendomi: -
Che fai? Non sai novella? morta
è la donna tua, ch’era sì bella. - Sia
il testo che i versi hanno indotto il Singleton ed altri a vedervi un
riferimento alla morte di Cristo, presentando in un certo senso Beatrice come figura
Christi. Ora, prima di essere un riferimento al testo dell'evangelista S.
Matteo, i versi letteralmente significano un’eclisse totale di sole. Perché
allora c’è la descrizione di un’eclisse concomitante alla notizia dell’avvenuta
morte di Beatrice? La descrizione si riferisce ad un’eclisse storicamente
avvenuta oppure essa è una metafora? Gli elementi in comune ai due testi sono il terremoto e l’oscurarsi
del sole, ma tutto il brano citato di Dante esprime un’esperienza
apocalittica più che la reminiscenza letteraria di un testo evangelico. La loro
somiglianza potrebbe spiegarsi,
infatti, più come espressione dipendente da una medesima
tradizione culturale, con il
proprio lessico, che non un riferimento diretto di un testo ad un altro. Ora in
un brano, pubblicato da Delatte[24],
attribuito da un compilatore bizantino ad Arpocrazione Alessandrino, e tradotto
in latino nel 1169 d. C., a Costantinopoli, si legge questa invocazione
all’anima (corsivo nostro): O
anima immortalis mortale corpus portans, ducta per aerem, obligata malis
vinculis necessitatis (...)
Cum autem egressa fueris a gravi corpore, vere videbis Deum dominantem in aere
et nube, qui tonitrua et terrae motus inducit, fulgura quoque et coruscationes
et fundamenta terrae movet et undas maris. Haec sunt opera Dei Patris aeterni..
Non si può non notare la somiglianza con il testo di Dante, che tra l’altro
presenta, come abbiamo già rilevato, un topos sulle rivelazioni della
tradizione ermetica. Dopo il
“Tu se’ morto” del testo in prosa,
c’è la descrizione della visione,
presentata come effetto della malattia, quasi uno sciogliersi dell’anima dal corpo. Un commento al testo
di Arpocrazione, in cui è
riconoscibile un’ allusione alla tradizione del profeta Daniele, esigerebbe una
esposizione quasi completa del lessico della cosmologia arcaica, soprattutto
per capire i fenomeni meteorologici come significanti l’ opera dell’eterno Dio
Padre. Dallo scioglimento dell’anima dalla pesantezza del corpo è promessa la
visione di Dio che giunge come Signore sopra le nubi e l'aria, è promessa la
visione di Dio giudice, causa di tuoni e terremoti, fulmini e lampi,
sommovimenti delle fondazioni della terra e dell’onda marina. Risulta allora
chiaro che tale lessico non si riferisce a fenomeni atmosferici e sismici, ma a
qualcosa d’altro. Essi indicano, come abbiamo accennato, quel sistema di
equivalenze di espressione degli intervalli temporali. Allora, se Dante parla
al verso 50 di un oscurarsi del sole e dell’apparizione della stella e se
esprime, avendola scoperta, questa tradizione, deve indicare anche la misura
del grandissimo terremoto, misura da leggersi nelle divisioni o suddivisioni
della canzone. Essa consta di 84 versi divisi in 28 e 56 versi, i quali a loro
volta si suddividono in (14,14) (28,27,1). Queste suddivisioni, grazie
all’intuizione geniale del Singleton, sono da intendersi come imitazioni di una
scrittura di eventi leggibile nel libro dell’universo. Certamente senza la
ricostruzione del modello aritmetico di calcolo non si potrebbe trovare che lo
spostamento angolare di quel quadrante chiamato terra , pari a 84° 28'
27" -1'” , un grandissimo spostamento, cioè un terremoto[25],
individua a partire dal tempo zero un’eclisse solare totale, con il sole a 50°
in mezzo alla costellazione delle Pleiadi,- le donne scapigliate forse - con il sole coincidente con h Tauri, Alcione, il corrispondente uranografico
della Donna pietosa e di novella etate. Qui ci sono tutti gli elementi
per sostenere, facendo gli oppurtuni calcoli, che dopo 30699.5 mesi
dall'origine la stella segnava l’equinozio di primavera e dopo ancora 3600 anni
coincideva con la longitudine del sole e con il nodo ascendente lunare,
altrimenti non vi sarebbe stata possibilità di eclisse. Essa è data in visione,
quasi come in un sogno: è cioè un’eclisse calcolata e non realmente vista da Dante, interessando il 3 maggio
1296 l’Islanda e non la Toscana.
E’ questo un esempio di comunicazione letteraria di una informazione
scientifica secondo il codice culturale arcaico, per dire la longitudine di una
stella. Il tempo di questa visione è posteriore di 73 mesi dalla data indicata
da Dante per la morte di Beatrice, e al verso 73 della canzone si legge: Morte,
assai dolce ti tegno.[26] Beatrice
alias Sirio Chi
ci avesse seguito fin qui, non troverebbe strano cercare quale sia la stella
corrispondente a Beatrice e come
debba essere letta la data, secondo la nostra cronologia, dell '8 giugno 1290,
cioé quella della sua “morte”. Che la gloriosa donna sia una stella nel cielo,
e una delle più luminose, se non la più luminosa, non dovrebbe più meravigliare
dopo quanto stiamo dicendo. Il gioco apparente che Dante fa sul numero nove
diviene pienamente intelligibile se dobbiamo cercare il valore di longitudine
di una stella al tempo zero. Si
tratta di sapere solo sotto quale forma esso sia dato, tra tutte le molteplici
espressioni per un intervallo temporale. Nove volte quel valore equivale alla
lettura che Dante propone di quella data: anni, secondo il calendario cristiano,
1290; mesi, secondo il calendario siriaco, nove;giorni, secondo il calendario
arabo, nove. Il numero degli anni indicano le sessantine e il numero dei mesi
le unità di un’intervallo temporale, espresso in mesi, equivalente a nove volte
la longitudine iniziale, espressa in mesi. Allora 1290*60
+ 9 = 9* 8601 mesi da cui 8601 mesi è la
base per calcolare la longitudine iniziale della stella, cioè la sua
longitudine al tempo zero. Il
riferimento al sistema cronologico arabo deve essere attentamente valutato,
perché vi sono anche altri sistemi che fanno iniziare il giorno dopo il
tramonto del sole. Vi potrebbe essere, infatti, mediante i tre sistemi,
un'allusione alle tre tradizioni culturali delle religioni abramiche. Come
per un vivente non è possibile determinare a priori la durata della sua vita, che si
fissa all’istante della sua morte,
così la determinazione della longitudine di una stella appare letterariamente
sotto la metafora della morte di quella “figura” ad essa associata, e associata
secondo una tradizione culturale, e non secondo una invenzione poetica. Ha
ragione Dante nel sostenere di non voler trattare estesamente “de la sua
partita da noi”, altrimenti “converrebbe essere me laudatore di me medesimo”,
lasciando ad altri questo compito, se si pensa che sotto la data di morte di
Beatrice si cela l’implesso culturale della tradizione arcaica. Il nome della stella, secondo il catalogo
stellare, è a Cma, Sirio, vera e propria regina del cielo, cantata
e celebrata sotto diversi nomi dai diversi popoli dell’antichità. Essa è il
centro dell’universo arcaico. La tradizione, che Dante forse segue, è quella
ermetica[27],se
dobbiamo dare credito ad un
testo tradotto dall’arabo in
latino, De XV stellis, attribuito a Messalah, secondo il quale la figura
di una puella, di una giovane fanciulla è associata ad Alhabor, Sirio,
assieme alla sua pietra preziosa, il berillo, e ad un’erba, la savina. Secondo
un rimaneggiamento del medesimo testo, attribuito a Enoch secondo alcuni,a Thebit ben Corat
secondo altri, la figura associata a Sirio è come una lepre o una pulchra
virgo. Sempre nel De XV
stellis, ad Algomeisa, ovvero Procione, l’immagine, la rappresentazione, è
quella di tres puellae, tre giovani fanciulle, che il Festugière
identifica con le tre Grazie che compaiono nell’affresco del trionfo di Amore
nel palazzo Schifanoia di Ferrara[28]. Sirio
centro dell'universo arcaico Beatrice alias Sirio! Parlare di
Sirio significa aprire uno dei capitoli più affascinanti della cultura antica e
ricordare Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, l’allieva di Frobenius,
dopo il Petavio, l’Ideler, il Lepsius, e altri eruditi sistematicamente
dimenticati dalla tradizione filologica e storica accademica. Si può ricordare
semplicemente che tale stella forniva nei cieli di Egitto e di Babilonia il
modello per il calcolo del tempo, se il suo sorgere eliaco (= circonfusa di
luce) avveniva sempre ogni quattro anni giuliani, cioè ogni 1461 giorni. Essa è
presente sotto l’immagine della mulier amicta sole con la luna sotto i
piedi, che grida per le doglie del parto, nel capitolo XII dell’Apocalisse,
e, nel racconto accadico del diluvio, le grida di Isthar sono come quelle di
una partoriente ed è,come astro di Iside, Sothis, il cui nome, secondo quanto
riferisce Plutarco, significa in egiziano pregnanza o l'esser
pregnanti[29] . Verso
la mirabile visione Beatrice,
alias Sirio, rivela dunque il secreto relativo all’arcangelo. In che
senso? Si deve infatti considerare che quando Sirio ha la longitudine identica
a quella che esprime l’intervallo temporale per il Natale, ci si trova
esattamente a 8601 mesi prima, al tempo cioè di Ezechia e di Isaia. Trovare il
tempo corrispondente a quello dell’Annunciazione non è difficile, è solo nove mesi prima. A conclusione della Vita Nuova
Dante scrive espressamente il sonetto Oltre la spera che accompagna
quello già precedentemente scritto, Venite ad intender, del capitolo
XXXII. I quattordici versi di questo sonetto sono suddivisi in due e dodici
versi. Ora la successione 14,2,12, letta come espressione sessagesimale di un
numero di mesi, individua, partendo dal tempo zero, il plenilunio 8601
mesi anteriore all’Annunciazione.
La mirabile visione, invece, cui accenna Dante nella conclusione, dipende
probabilmente da una particolare scrittura del tempo dell’Annunciazione; dopo
aver riscritto l’intervallo iniziale di 8601 mesi, relativo alla stella Siro, si ottiene
8601 mesi = (8052 + 549) mesi dove si trovano in 8052 i mesi pari a 651 anni del ciclo di
Apollo e in 549, riscritto secondo il sistema sessagesimale (9,9), la comparsa
del ritornante numero nove. In questa riscrittura c’è l’interpretazione di
Dante del mito di Apollo. Così le espressioni sessagesimali To + 14,2,12
+ 2,14,12, + 9,9 determinano in mesi il tempo dell’Annunciazione.
Per l’arte della memoria la permutazione della successione 14,2,12, in 2,14,12
permette di derivare dal mito di Apollo, nascondendolo in esso, quello che il poeta dice
relativo al secreto dell’Arcangelo. Poiché si distingue il tempo a
creatione mundi da quello a creatione hominis, è necessario
ricercare, nel Convivio, una esplicita divisione per trovare la
differenza tra i due tempi. All’inizio dell’ultimo capitolo del IV trattato, si
trova indicata una divisione, che permette di leggere 3,-13,-14 mesi, avendo la
canzone “tre parti” e
il ragionamento per la prima parte
si sviluppa “per tredici e la
seconda per quattordici capitoli” (Convivio, IV,30,1). Così
l’espressione precedente risulta, essendo To +
3,-13,-14 = T1 T1 +
13,39,-13 La
canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, la prima del Convivio,
è composta di quattro stanze di tredici versi con un congedo di nove, mentre la
preghiera di San Bernardo alla Vergine è composta da tredici terzine con il
riferimento al concepimento al verso 9: così è germinato questo fiore.
In quel germinato c’è la ripresa di un passo di
Isaia (35,2-4), che, nella vulgata latina veniva recitato alla lectio
III del Breviario romano nella festa dell’Annunciazione: « et florebit quasi
lilium. Germinans germinabitur». Per Dante si tratta di vedere che, come il
tredici supera il nove di quattro unità, così il tempo espresso dal numero
sessagesimale 13,39,0 mesi supera di quattro mesi il tempo della natività,
sicché l’annuncio è avvenuto a 13,39,-13
mesi, pari a 49127 mesi da una
determinata origine. Ancora di 13 versi, con dieci endecasillabi e tre
settenari, sono le stanze della
canzone del Petrarca Vergine bella, che di sol vestita, mentre il congedo è di sette versi, con quattro
endecasillabi e tre settenari. Ogni stanza registra al primo e al nono verso
l’occorrenza della parola “Vergine”. Ancora il tredici compare nel passo del Convivio
relativo agli anni della Vergine, per non parlare della distribuzione a gruppi
di tredici delle anime nella Divina Commedia, come è stato analizzato da
Robert L.John [30]. Collegando
il tempo della visione della canzone Donna pietosa e di novella etate,
espresso secondo il terremoto di
84° 28' 27"-1'"
,valori numerici della suddivisione della canzone, alla data della morte
di Beatrice, 1290,6,8,ed essendo
questa avvenuta 73 mesi prima ( v. 73:
ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno; ) del tempo della
visione, in cui si annuncia l'avvenuta morte della sua donna, si hanno tutti i
dati per passare dal sistema cosmocronologico arcaico a quello della nostra era e viceversa. Solo in Dante, a differenza di altri autori,
v'è questa corrispondenza[31]. Così è
possibile trovare che la data del Natale è quella del 25 dicembre del 6 a.C.,(
63 mesi prima del primo plenilunio della nostra era), quella
dell'Annunciazione, nove mesi lunari prima, corrisponde al 4 aprile. A queste
medesime date si giunge, partendo dal tempo zero (- 4786.7 ± 0.01) proposto per
la lettura del poema di Gilgames, da noi presentato nella relazione
Il linguaggio del Sogno nella Cultura del Mito. La cosmologia arcaica
dall'Epopea di Gilgames al mito greco di Apollo al convegno a Chiavari 5-7
dicembre 1984 [32]. La
morte di Beatrice è avvenuta sette anni (86.5 mesi) dopo il secondo incontro
del poeta, quello in cui si narra del saluto. La morte di
Muhammad, avvenuta l' 8 giugno del
632, si trova pertanto situata rispetto al tempo del saluto di Beatrice, esattamente 651
anni prima, cioè 8052 mesi lunari, esattamente quel ciclo base che definisce Apollo. Non sappiamo se Dante
fosse consapevole di questa circostanza né abbiamo ragioni per negarne la
possibilità [33]. Il
riferimento di origine dei Fedeli d'Amore V’è
poi una terza origine temporale, che interessa i fedeli d'Amore. Sotto
questa espressione non è possibile identificare una specie di setta segreta di
poeti[34], ma solo
quei trovatori che sanno a che cosa corrisponda nella tradizione letteraria
latina Amore, alias Cupido, alias Eros. Cupido è la stella
che sta sotto la fronte del Toro, come è espressamente dichiarato da Manilio. E
il suo arco , analogo a quello di Apollo, esprime metaforicamene il ciclo base
per il calcolo delle longitudini del sole, identico al complemento della
longitudine iniziale. Ciò significa che la tradizione letteraria colta indica i
tempi di ciò che tratta a partire dal novilunio di primavera in cui Amore
, l’”occhio del Toro”, segnava l’origine delle longitudini, distante da
quell’altra origine, con l’equinozio nei Gemelli, esattamente il numero B di
mesi lunari del ciclo associato alle frecce di Cupido. In
altri termini, secondo una notazione letterale, avremo: To : a
Tauri = l°(0) Base
del ciclo : 360° - l°(0) A
anni solari = B mesi lunari Per
DT° = 360° - l°(0) a Tauri = 0° Il
sonetto Era venuta ne la mente mia , ad un anno esatto dalla morte di
Beatrice, ha un doppio cominciamento per significare appunto il riferimento
alle due origini temporali, a quella dell’Annunciazione, per la presenza del ciel
de l’umiltate, ov’è Maria, e la seconda, al tempo di origine segnato da Amore. Notevole e
straordinaria è la differenza,espressa in mesi, tra i due tempi, essendo di
10,22,32;30 mesi. In questa successione numerica non si può fare a meno di
ricordare le affermazioni all’inizio
dello Sefer Yezirah [35]:Dieci
sephirot beli-mah e ventidue lettere fondamentali , costituenti i trentadue
misteriosi sentieri di saggezza, nei quali ha scolpito Jahwe. Se si potesse mostrare che Dante,
tramite il suo amico ebreo
Emmanuele ben Salomon di Firenze[36] ,di questo classico testo della
tradizione ebraica ebbe notizia e da esso possibilità di accesso alle strutture
numeriche dell’inizio e dell’ultimo capitolo, si avrebbe un tassello in più per
la conoscenza delle fonti della sua cultura, illuminando non poco la genesi
della sua scoperta e della sua opera. Minerva,
Apollo e l'Orsa maggiore La
terzina autoaffermante la propria originalità, è una delle più enigmatiche, con
quel riferimento a Minerva, Apollo, le Muse e l’Orsa maggiore e al succcessivo
“pan degli angeli”: L’acqua
ch’io prendo già mai non si corse: Minerva
spira, e conducemi Apollo, e
nove Muse mi mostran l’Orse. (Paradiso,
II,7-9) Questi
versi forse possono essere compresi a partire dal termine della Vita Nuova,
cioé dall’accenno ad una mirabile visione, il cui contenuto spinge il poeta al proposito «di non
dire più di questa benedetta» fino a tanto che egli «potesse più degnamente
trattare» di Beatrice. Con l’augurio
che la sua anima possa un giorno «vedere la gloria della sua donna,(...)
la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula
benedictus» termina la Vita Nuova, con il medesimo riferimento a
Rom.I,25, col quale termina la Riconduzione delle arti alla teologia di
S. Bonaventura: un opuscolo databile al 1255-57. Nella prospettiva di questo
autore francescano, senza l’illuminazione che discende dall’Alto, cioè dal
Padre della luce, secondo l’esplicito richiamo ad un passo della lettera di
S.Giacomo, «ogni conoscenza è vana, dal momento che non si giunge mai al Figlio
se non per mezzo dello Spirito santo, che ci insegna tutta la Verità ed è benedetto nei secoli dei
secoli.Amen»[37]. Questa
coincidenza di riferimento potrebbe non essere significativa, tuttavia si può
cercare altri punti in comune più decisivi e osservare come la lettura della Vita
Nuova qui proposta si concilia con l'ipotesi che essa sia l'approfondimento
di alcuni passi notevoli dell'opuscolo del mistico francescano. Per
la mirabile visione, che non può essere il disegno della Divina Commedia,
è necessario, invece, vedere come si giunge alla presenza di Apollo in
quell'opera. La visione del sonetto Oltre la spera si pone al tempo di
8601 mesi prima del Natale, mentre il tempo del sonettoVenite ad intender,
per la sua suddivisione, si pone a 8601 mesi prima dell’Annunciazione, dopo che
sono trascorsi 14,2,12 mesi dall’origine. Inaspettatamente
abbiamo visto che il mito di Apollo,con il suo ciclo, si trova nel valore
numerico che determina Beatrice
alias Sirio al tempo di origine e che per una permutazione nell’ordine
delle sue cifre, espressione di un’arte della memoria, è legato al tempo
dell’Annunciazione. Il
rapporto enigmatico con l’Orsa maggiore è invece dichiarato nel Purgatorio
in quei versi, riferiti a Beatrice: Sola
sedeasi in su la terra vera, come
guardia lasciata lì del plaustro, che
legar vidi a la biforme fera. (
Purgatorio, XXXII,94-96) Il
plaustro è il carro e generalmente negli autori latini significa l’Orsa
maggiore. Affermare che Bearice sia guardiana dell’Orsa significa legare Sirio
ad una sua stella e domandarsi il significato tecnico di questo rapporto. Pensiamo che si debba vedere sotto
questa stella, quella“ gentile donna giovane e bella molto, la quale da una
finestra mi riguardava sì pietosamente” (Vita Nuova, XXXV). Il
riferimento alla finestra fa pensare alle quattro stelle dell’Orsa maggiore, a,b,g,d che sono
disposte ai vertici di un
rettangolo irregolare. In base alla ricostruzione del catalago stellare della tradizione,
derivata da una nuova lettura
della Vita Nuova, catalogo
cui allude Dante con “li nomi di sessante le più belle donne de la
cittade” ( Vita Nuova,VI), si può vedere che al tempo in cui Sirio
misurava tre volte la sua longitudine iniziale a Uma e z Uma erano
con buona approssimazione rispettivamente a 60 e a 90 gradi. Il tempo di questa situazione è dato
ovviamente da 2*8601 mesi. La terra vera, come terra emersa, è quel
quadrato che congiunge i punti equinoziali e solstiziali e pertanto con quella
espressione si fa un sintetico riferimento ad altre tre stelle, la cui
longitudine sia di 0°,180° e 270°. Quale sia la tradizione riflessa in
“Beatrice guardiana del Carro”,confessiamo di non sapere, tuttavia l’implicazione
cosmologica dell’espressione somiglia stranamente, senza che Dante lo potesse
sapere, alla rappresentazione nei soffitti astronomici di epoca ramesside o di
Sethi I. Su queste enigmatiche rappresentazioni così si esprime Hertha von
Dechend : “ In tutti i casi il piolo o palo di ormeggio sta nelle mani di Iside
travestita da ippopotamo; al palo d’ormeggio è collegata una fune o una catena,
all’altro capo della quale si trova Maskheti, la coscia del Toro, vale a dire
il Gran Carro;”[38] . In uno
dei testi si dice: “Quanto a questa coscia di Seth [l’Orsa maggiore], essa si
trova nel cielo del nord, attaccata con una fune a due paletti di selce. E’
affidata a Iside, che la sorveglia in sembianza di ippopotamo femmina” perché
non se ne vada “ nel cielo del sud verso l’acqua degli dei generati da Osiride,
alle spalle di Orione (Brugsch,Thesaurus, p.122). Alle spalle di Orione,
secondo la rappresentazione egizia, si trova l’Eridano che fluisce verso il
sud. Se la fune o la catena cui è
legata l’Orsa è la longitudine di Sirio al To , allora
è necessario cercare quali stelle sono più vicine agli equinozi e ai solstizi,
rappresentati rispettivamente dal babbuino seduto sulla colonna-Djed (Orapollo;
I,16) e dai cani seduti all’estremità (Clemente alessandrino, Stromata,
V,7), nel tempo segnato da due volte (i due paletti) quella longitudine, cioè
per dt = 17202 mesi [= 5,-(18-5),-18 mesi] si trova che b Eri ≈ 0°
(- 5'), a Eri ≈ 270° (- 4'); e Sco ≈
180° (-2'); z Uma ≈ 90° (+24') e a Uma ≈ 60°
(- 9'). Il tempo secondo la nostra cronologia è
il plenilunio del 13 febbraio del 3396 a.C. E’ questa una semplice ipotesi che
sottoponiamo a quegli studiosi dell’astronomia egizia che riconobbero che il
problema è “più complesso di quanto sembri a prima vista” [39] . Non sappiamo se questa sia la soluzione
per la rappresentazione egiziana ,
tuttavia ci pare implicata in ciò che Dante afferma con Beatrice guardiana dell’Orsa maggiore
sulla terra vera, indipendentemente dal riferimento alla cultura egizia. Al carro vide poi legare il grifone, cioè un leone con testa e ali di aquila,
simboleggiante il Cristo. Legare il leone e l’aquila all’Orsa maggiore
significa individuare una stella per ciascuna delle due costellazioni che
segneranno con la loro longitudine sia il tempo della nascita che quello della
morte di Cristo. Quali esse siano Dante non dice, lasciando alla sapienza del
lettore la loro individuazione forse nelle visioni di altre terzine. E’
probabile che esse dipendano dai quattro animali presenti nella visione del
trono del IV dell’Apocalisse: animali che sono rispettivamente simili al
leone,al giovane vitello (=Toro), all’aquila e all’uomo. Prospettiva
finale Il
“secreto” dell’arcangelo è dunque la cifra simbolica (come anche il “saluto” di
Beatrice) dell’esperienza culturale del poeta. Egli trovò il modo di collegare
la storia della salvezza della tradizione cristiana ad un quadro cosmologico
poeticamente e letterariamente costruito e comunicato secondo un’arte della
memoria che non è più la nostra, applicando una tecnica di calcolo, analoga a
quella di una cronologia astronomica, presente, nelle varie culture, nella
tradizione della sapienza arcaica.
Dal mito di Apollo giunse, mediante la scrittura sessagesimale del suo ciclo, a
cogliere con un procedimento
mnemo-tecnico, il tempo della nascita di Cristo e la funzione rivelatrice
dell’arcangelo; dalla scrittura
del tempo dell’Annunciazione passò al mito di Apollo. A questa esperienza
giunse, essendo nato nella fede cristiana, mediante lo studio della poesia
latina e la lettura di testi, alcuni dei quali appartengono probabilmente alla
tradizione ermetica e forse anche
a quella ebraica, come lo Sefer Yezirah. La frequentazione dei testi
filosofici ,teologici, mistici ed astronomici fu la strada che dovette
percorrere per poter dire nel contesto pubblico del tempo la sua scoperta,
attendendosi il ritorno al suo bel
San Giovanni, un rinnovamento dell’Impero e, con questo, quello della Chiesa.
Coniugando l’amore per le lettere con il desiderio di vedere Dio - in questo esprimeva più la tensione della cultura monastica del secolo
precedente che quella della scolastica[40] - , la
sua scrittura non scaturì in vista di
una perfezione formale di tipo umanistico, ma dalla volontà di
trasmettere al crescente mondo laico, con il massimo di ricerca stilistica
nell’idioma nativo, le innumerevoli vie che portano a quella bellezza che un
giorno gli apparve e che divenne, per
studio, passione e dedizione ,il punto in cui la visione si fa storia,
la profezia poesia, la scienza arte. Nella
struttura del cosmo vide arditamente riflessa una incipiente analogia
trinitaria, meglio una traccia, espressa nelle due corone intrecciate dei Beati
del canto XIII del Paradiso. Tale analogia gli permise di non
disgiungere cosmo e storia, mito e profezia, intrecciate nell’unico evento
cosmico-storico, annunciato dall’arcangelo Gabriele. I beati, disposti su due
corone, rispondenti ad una ben precisa struttura cosmografica, che Dante
descrive tecnicamente, cantano appunto: Lì si cantò non Bacco, non Peana ma
tre persone in divina natura e
in una persona essa e l’umana
(Paradiso XIII,25-27) Se qualcuno pensa che sia ardito mettere
insieme mito e profezia, si ricordi che i magi, seguendo la loro stella
giunsero alla grotta di Betlemme. Quella stella, col suo significato, centrale
per loro, era qualcosa che apparteneva alla loro cultura e la tradizione
patristica latina non avrebbe celebrato nell’Epifania la manifestazione del
Salvatore ai Gentili; il che implica che i Gentili avevano nella loro
tradizione culturale ciò che permetteva loro di riconoscere tale
manifestazione. Questa stella è a Cma la cui longitudine al
tempo zero, espressa in mesi e nel sistema sessagesimale, è 2,23,21 (= 2,14,12
+ 9,9 = 8601).Il racconto evangelico di S.Matteo sui magi si trova nel capitolo
II che consta di 23 versetti, con il ricordo dell'ordine di uccidere i bambini
sotto i due anni. Nell’ opera di Dante tutte le tradizioni
appaiono allora ritrovarsi e la
comprensione che egli ne ebbe può divenire anche una inaspettata fonte per noi,
divenire quel sole che egli sperava che sorgesse, nel tramonto dell’ «usato
sole», che ormai non splendeva più. Dante ci appare il massimo interprete delle
tradizioni antiche e il massimo conoscitore dei loro codici culturali di
comunicazione, che mostra di applicare, secondo la nostra cultura, con una libertà sconcertante. Quel sole
promesso non sorse, purtroppo, nella nostra storia, anche, tra l'altro, per la
frattura rappresentata dall’Umanesimo, con la scelta del latino come lingua
colta, a differenza della proposta del "volgare illustre", aprendo
così la strada alla crisi della modernità del XVII secolo. Prof. Giovanni Ferrero Storia del pensiero scientifico Facoltà di Scienze della
Formazione Università Di Genova C.so Montegrappa 39 - 16137 Genova [1] Testo riveduto del seminario tenuto il 22 giugno 1995 presso la cattedra di Estetica del prof. Carlo Angelino alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Genova.Ringraziamo il prof.C.Angelino per tale invito che ci ha permesso di comunicare e discutere in pubblico per la prima volta gli inconsueti risultati di una ricerca. Per i testi di Dante citiamo dalle seguenti edizioni: Vita Nuova, Introduzione di G.Petrocchi, Commento di M.Ciccuto, 2a ediz.,Rizzoli Milano 1989; Convivio, a cura di G.Inglese, Rizzoli Milano 1993. [2] Cfr. MARIA CORTI,Percorsi dell'invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993, pag. 153. [3]Cfr.GIOVANNI FERRERO,La via della demone.Per lo studio sulla genesi e la struttura del poema di Parmenide, in La matematica delle civiltà arcaiche,di Livia Giacardi e Silvia Roero, Stampatori Torino 1979 pp.283-321 [4] Cfr. Appendice [5] La Donna-Filosofia-Sapienza corrisponde sul piano cosmologico a b Andr. 10° 20' = q (=9) e p(=80) lettere scritte sul vestito (per la corrispondenza delle lettere dell'alfabeto greco ai numeri cfr. NICOMACHUS OF GERASA,Introduction to arithmetic, a cura di M.L.D'Ooge,New York, The Macmillan Company,1926, Chapter IV, Greek arithmetical notation, pag.68) al tempo segnato da a Tauri, alias Cupido = 49° 18' 27" - 17'" = 525,5,8 ; con L° sole = 48° 21' I valori numerici sono dati dal numero dei versi delle composizioni poetiche del primo libro dell'opera di Boezio. La comprensione di questa affermazione richiede il possesso completo della cosmologia arcaica, esposta in Appendice e la conoscenza dei tempi di riferimento delle varie tradizioni letterarie. Nel senso che preciseremo in seguito, a proposito dei Fedeli d'Amore, Boezio come poeta tardo-antico continua la tradizione letteraria latina, rappresentata ad esempio da Ovidio. [6] SEVERINO BOEZIO, La consolazione della Filosofia. Gli Opuscoli
Teologici, a cura di Luca Obertello, Rusconi, Milano 1979,pp.133-34. Il v.
13 può forse più propriamente
significare che il giovane Boezio “da vincitore nei ritmi” cioè nelle gare
poetiche ad Alessandria, esprimeva la posizione dei pianeti. Questo punto
merita che si legga direttamente il testo
di Boezio, perché per quanto la traduzione ne esprima il senso generale non si trova in essa la
terminologia specifica: Hic
quondam caelo liber aperto suetus
in aetherios ire meatus cernebat rosei lumina solis, visebat
gelidae sidera lunae Et
quaecumque vagos stella recursus exercet
varios flexa per orbes, comprensam numeris victor habebat. (De
Consolatione,I,II,7-13) [Boezio,]
un tempo,libero nel cielo sconfinato, mentre era solito percorrere le vie
dell’etere, distingueva le luci del roseo sole, osservava le costellazioni
della gelida luna e qualunque pianeta, inclinato sulle diverse sfere,avesse
tenuto erranti rivoluzioni,egli da vincitore le esprimeva con i numeri (o con i metri). [7] cfr. CHARLES S.SINGLETON,Saggio sulla ”Vita Nuova“, tr. it., Bologna, Il Mulino 1968, cap. secondo, Il libro della memoria, pp.39-75 [8] All’invettiva contro costoro, il cui senso va ben oltre un dissenso letterario sulla eccellenza di una lingua , è dedicato tutto il capitolo undicesimo del primo libro; una vera e propria analisi ante litteram dei mali italiani, causati da “cinque abominevoli cagioni”: mancanza di discrezione e discernimento, ricerca di una giustificazione fraudolenta,desiderio di vanagloria, disprezzo per ciò che altri sanno e mostrano di eccellere, e infine viltà d’animo. [9] Voi, che ‘ntendendo il terzo ciel
movete, udite
il ragionar ch’è nel mio core, ch’io
nol so dire altrui, sì mi par novo; (Convivio, II,I, 5,1-3) [10] cfr. B.NARDI,Dante e la cultura medioevale, 2a ediz.,Bari, Laterza 1990, capitolo X. Cfr. S.BONAVENTURA,Itinerario della mente in Dio. Riconduzione delle Arti alla Teologia, tr. di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, Introduzione di Letterio Mauro, città nuova Roma 1995, pag.53. [11] Trovare le fonti di questo passo
sarebbe un bel argomento per una tesi di laurea, dato che in esso vi è forse
una allusione a Boezio, che, nel metro IX del terzo libro, in quella preghiera
della Filosofia, così si esprime:
Tu dall’alto modello
trai le cose, ed il bel mondo porti nella tua mente (Boezio,DeConsolatione,III,IX,6-7;
trad. Obertello) tu
cuncta superno Ducis
ab exemplo; pulchrum pulcherrimus ipse mundum
mente gerens similique in imagine formans (Boetius,
De Cons. ,III,IX,6-8) e solo
tre autori greci registrano il
nome Protonoè: Nonno,l’autore delle Dionisiache, Arpocrazione retore e
Arpocrazione Alessandrino e il Thaesaurus Linguae Graeciae dello Stephanus
non lo riporta. [12]Secondo il Delambre (Histoire de l'Astronomie au Moyen Age, Paris 1819), il massimo storico dell’astronomia medioevale, che riassume il manuale arabo traendolo da una edizione del 1590, tutto il primo libro è copiato di pari passo da un altro astronomo arabo, Albattegnius, e per il resto dipende quasi esclusivamente da Tolomeo. Il traduttore ebreo, Rabbi Jacob, invece, annota al termine di un’ ap-pendice sulla diversità dei giorni: Desinit totus hic liber laus Deo. [13] cfr. B. Nardi, op.cit. pag.163 [14] La posizione tradizionale della Chiesa latina è bene espressa da S. Agostino in un commento al Prologo del IV Vangelo (corsivo nostro): “si vultis pie et christiane vivere, haerete Christo secundum id quod pro nobis factus, ut perveniatis ad eum secundum id quod est, et secundum id quod erat. Accessit, ut pro nobis hoc fieret; quia hoc pro nobis factus est, ubi portentur infirmi, et mare saeculi transeant, et perveniant ad patriam; ubi iam naui non opus erit, quia nullum mare transitur. Melius est ergo non videre mente id quod est, et tamen a Christi cruce non recedere, quam uidere illud mente, et crucem Christi contemnere. Bonum est super hoc et optimum, si fieri potest, ut et videatur quo eundum sit, et teneatur quo portetur qui pergit.” (S.A.Augustini, In Johannis Evangelium, II,3, 2-12). Quando questo passo si tradurrà in strutture unicamente giuridiche, potenzialmente vi saranno già le premesse per tragedie, come quella di Giordano Bruno. La posizione di S.Agostino, almeno come atteggiamento spirituale, si ritrova in S.Bonaventura a proposito della sapienza: "Dunque, o uomo di Dio, esèrcitati a percepire lo stimolo della coscienza che rimorde, prima di elevare gli occhi ai raggi della sapienza che rilucono in essa come in uno specchio, perché non avvenbga che questa speculazione troppo luminosa non ti abbagli e tu non abbia a cadere in un più profondo abisso di tenebre" (S.BONAVENTURA,op.cit.,pag.41) [15] cfr. Appendice [16]GIORGIO de SANTILLANA e HERTHA von DECHEND,Il mulino di Amleto.Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, tr.it., Adelphi Milano 1983 [17] Questa lettura dell'Apocalisse è indipendente dalla lettura di Dante e, in una certa misura, è quella che ci ha condotto a riprendere la lettura del poeta. Essa tenta di dare un modello interpretativo dei rapporti tra la tradizione sapienziale ebraica, l'apocalittica giudaica, che cerca precisamente di determinare la pienezza dei tempi o la fine dei tempi, e il testo dell'Apocalisse di Giovanni, che, in un primo e imperfetto scritto di qualche anno fa ( cfr. Le radici nascoste della civiltà europea, in "Lo Scrittoio",I,(1988) pp. 10-32) abbiamo già letto come la storia della salvezza secondo la storia del cosmo. Si osservi come [ 90° - (66° 24' 48") = 23° 35' 12" ] dia un valore assai prossimo dell'inclinazione dell'eclittica indicato da Dante sulla scorta di Al-Fargani. [18] Dionigi il piccolo, a Roma sotto il papato di Atanasio II (496-98), nell'adottare il ciclo alessandrino di 19 anni (ciclo metonico) per il calcolo della Pasqua, estese per 95 anni le tavole pasquali di Cirillo di Alessandria che terminavano nel 531 e innovò l'uso della cronologia precendente ab Urbe condita, introducendo l'uso di datare a nativitate Jesu, ma in ciò commise il noto errore cronologico. [19] S.Bonaventura, op.cit. Ricond. arti Teol. (20), pag.115.La filosofia naturale, cui allude S.Bonaventura, non è da ricercarsi nei commenti al De Coelo di Aristotele, ma in una miniatura del Caedmon(Cfr. AA.VV,Il secolo dell'anno mille,tr.it., Milano Rizzoli 1974, fig.248, pag.248 inizio dell' XI secolo.Cfr Tav.1) relativa ai primi due versetti del Genesi, dalla quale risulta evidente che i due cerchi descritti sono rispettivamente i due paralleli di declinazione e di latitudine distanti 24° dai rispettivi poli. La figura di Cristo pantocratore si trova collocata sul polo dell'eclittica, su quello che tecnicamente nella sapienza biblica si chiama trono di Dio. Poiché la filosofia naturale deve determinare a priori l'intervallo che va dall'A all'W , essendo il Natale alla fine dei tempi, non è possibile scrivere nessun tempo in giorni, mesi e anni, ma ciò che corrisponde al fluire del tempo. Mentre il cielo ruota attorno al suo polo, determinando giorno dopo giorno, mesi e anni, il polo stesso con moto lentissimo descrive un arco attorno al polo dell'eclittica, attorno cioè al trono di Dio. A questo lentissimo movimento corrisponde analogicamente lo Spirito di Dio che aleggia sulle acque (Ruah Elohym) di Gen.I,2. Poichè il polo celeste si trova a 66° di latitudine, distante pertanto 24° dal trono, e i paralleli e i meridiani sono ripettivamente 24, allora quando il polo celeste avrà compiuto un arco di 66° 24' 48", allora sarà giunto il tempo dell'W, cioè del Natale. Nel sistema arcaico delle equivalenze, il medesimo tempo è dato dal lampo, la cui misura è 30;11,12,19 giorni e dal fulmine, la cui misura è 67;29,4,0 giorni con una strana corrispondenza alla distribuzione numerica dei canti della Divina Commedia, ricordando che i canti introduttivi sono quattro. La grandezza di Dante con la Vita Nuova è precisamente quella di aver individuato il tempo di inizio e di fornire l'informazione necessaria per passare da tale modo di esprimere il tempo, tipico della sapienza arcaica, al sistema cronologico dell'Era cristiana, con una modalità letteraria ed artistica,allora unica possibile, per comunicare una tale scoperta e il sapere per tale scoperta. Se poi questo sapere sia anche il sapere iniziatico ed esoterico dei Templari dipende dalle prove che si possono addurre in tali ricerche, dipende se chi sostiene una tale tesi sia in grado di mostrare che possiede il significato tecnico e non semplicemente allusivo e generico di tale sapere.Non è sufficiente rilevare, ad esempio, una relazione tra l'arcangelo Gabriele e l'arcangelo Michele, senza che contemporaneamente non sia detta la struttura tecnica di tale relazione, come non è sufficiente ricordare che per i Pitagorici la successione dei primi quattro numeri naturali è all'origine del divenire eterno della natura (Giuramento pitagorico) senza mai dire in che modo sia la legge di tale divenire per mostrare di possedere tale sapere che si dice esoterico e che si vuole che tale rimanga anche nelle mutate condizioni storiche e culturali di oggi in Occidente. Cfr. Appendice, formula (2) e (3). Poiché S.Bonaventura mostra di conoscere, applicandola, la gnosi ortodossa cristiana, si pone il problema di ricercare attraverso quale tradizione ecclesiastica tale conoscenza gli sia giunta. [20] cfr. RICHARD ELLIOTT FRIEDMAN,Chi ha scritto la Bibblia?, tr. it.,Torino Bollati Boringhieri 1991 [21] Cfr Singleton, op.cit, pag.64 [22] Cfr.Singleton, op.cit.,pag.29. [23] Topos, questo, classico della tradizione ermetica sulle rivelazioni. cfr R.P.FESTUGIERE,La révélation d'Hermès Trismégiste,I,L'astrologie et les sciences occultes,Paris 1950,pag. 312 ssg. [24] cfr L.DELATTE, Textes latins et vieux français
relativfs aux Cyranides (Bibl.,Fac. Philos. et Lettres Univ. Lièges,93)
1942,Des Cyranides,I,17,18-18,9 [25] Applicando la (10bis) dell'Appendice si ottiene il corrispondente numero di mesi: 75225.4973 @ 75225.5 [26] L'occorrenza del termine "Morte" c'è già al v. 3, ma in questo caso non si riferisce a Beatrice, ma è in relazione alla Donna pietosa e di novella etate (...) ch'era là 'v'io chiamava spesso Morte. Ricordiamo che la tradizione ermetica chiama un determinato grado della costellazione dello Scorpione Mors. Non è possibile mostrare in questa sede tutti i riferimenti uranografici presenti nella canzone.Si può forse congetturare che Morte (= a Sco) è detta dolce perchè dista dal punto opposto a h Tau della medesima quantità che determina Sirio alias Beatrice al tempo di origine. [27] Un indizio di riferimento alla tradizione ermetica si trova forse in Paradiso, XVIII, 82-93, con l'invocazione alla diva Pegasea del v.82. [28] cfr R.P.FESTUGIERE,op.cit., pp.181-82. Se si rammenta che al secondo incontro Dante trova Beatrice con altre due donne più anziane di lei, e la rima dell’esilio Tre donne intorno al cor mi son venute, allora quel testo di un astronomo arabo,attribuito ad Hermes, potrebbe essere una delle fonti di Dante, anche se le tres puellae associate ad Algomeisa, se sono le tre Grazie, non possono essere le tre donne di Dante. Per lo studio del De XV stellis rimandiamo alla magistrale analisi dello studioso francese (op.cit.,pp.160-186), anche se la prospettiva aperta dalla ricostruzione della cosmologia arcaica, suggerisce una diversa lettura della parte relativa alle longitudini delle stelle ivi presente. La direzione di ricerca, forse, non è tanto l'astronomia ellenistica e un ipotetico originale greco, quanto l'opera astronomica più importante della Persia pre-islamica, rappresentata dalle Tavole del re composte attorno al 555 d.C. e base dell'attività astronomica di Messalah, fiorito durante il regno di al-Mansur.Per notizie sull'astronomia araba cfr. SEYYED HOSSEIN NASR,Scienza e civiltà nell'Islam, Prefazione di Giorgio de Santillana,tr.it., Feltrinelli Milano 1977 pag.138 e ssg. [29] cfr G.De SANTILLANA-HERTHA von DECHEND,Sirio,centro permanente dell'universo arcaico, in AA.VV.,Eternità e storia,Vallecchi editore Firenze 1970, pp.391-412. L'etimologia fornita da Plutarco (De Iside,61) non è seguita dagli egittologi,ma è un indizio culturale per identificare il grande segno nel cielo della mulier amicta sole con a Cma. [30]Cfr. ROBERT L. JOHN,Dante
templare, tr.it.,Hoepli Milano 1987, pp.207-234. [31] I §§ 2 e 3 del Prologo dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura (op.cit.,39-40) potrebbero, ad una più attenta lettura, rivelarsi decisivi. Infatti per DT° = 17° 33' 10" - 3'" dal 25,12, 6 a.C. si ottiene il plemilunio del 3,10,1259, 33 anni dopo la morte di S. Francesco, 3,10,1226. S.Francesco ebbe le stimmate il 17,9,1224. Si noti che 1224:72 = 17°. Con le sei ali del serafino c'è il riferimento al profeta Isaia e la successione (§ 3): 6 ali, 6 gradi, 2 anni, 6 ali, 6 gradi permette di scrivere la successione 12,2,14, che in modo speculare individua il tempo in cui situare Isaia XI rispetto al tempo dell'Annunciazione. Se così fosse la Vita Nuova risulterebbe la forma letteraria, nel quadro delle tradizioni culturali, di quella sapienza cristiana di cui parla il francescano (op.cit.,pag.40). [32] cfr. Segno simbolo sintomo comunicazione. Implicanze e convergenze fra Filosofia Psichiatria Psicoanalisi, Atti del convegno a cura di A.Dentone e M.Schiavone, Esagraph,Genova 1985, pag.283. [33] Rileviamo come già nella Canzone di Orlando Apollo sia accostato al nome del profeta Muhammad: v. 8, Mahummet sert e Apollin recleimet:/serve Maometto e Apollo prega e chiama; e ai vv. 2696-97 e vv 2711-12: La Canzone di Orlando, a cura di Mario Bensi, Introduzione di Cesare Segre, Trad. di Renzo lo Cascio, Testo antico francese a fronte, 2a ediz., Rizzoli Milano 1993. Per l'implicazione cosmologica del mito di Apollo rimandiamo sia allo scritto sull'Apocalisse (op.cit. pp.11-13 che a Il concetto di "natura" nel pensiero arcaico in "Il Contributo" (1990) XIV,1, pp. 3-21. [34] La tesi di Luigi Valli (Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d'Amore»,Milano,Luni Editrice, 2a edizione, 1994) manca proprio nella ricostruzione del gergo, non considerando che Amore è un dio pagano connesso ad una stella, la cui funzione Esiodo e Parmenide, Ovidio e Boezio e Dante sapevano,come mostra di sapere l'autore arabo del De XV stellis : Quando a Tauri misura 50° 50' ci si trova , rispetto all'inizio della cronologia araba del 622,IX,25, al novilunio posteriore 1/60 del tempo in mesi che determina all'origine Hermes-Thoth-En-Ki. In altri termini: a Tauri = 50° 50' = To + 154.5 mesi, oppure, dopo 3660 anni (1,1,0) dall'inizio, quando la stella determinava l'origine, sono passati 154.5 mesi dal plenilunio del 622,IX,25. [35]cfr. Sefer Yezirah (Il libro della creazione) Trad. dall'ebraico, Prefazione e note di Gadiel Toaff, Carucci editore Roma1979; oppure Sefer Yesirah, Il libro della formazione, in Mistica Ebraica, a cura di Giulio Busi ed Elena Loewental, Einaudi Torino 1995, pag.35 [36] cfr R.L.John ,op. cit., pag.352 [37] cfr.S.Bonaventura, op.cit.,pag.118 [38] cfr.G.de Santillana-Hertha von Dechend, Il mulino..,op.cit.,pp 468-69 [39] cfr O.NEUGEBAUER & R.A.PARKER,Egyptian
astronomical texts II. The Ramesside star clocks,Brown University
Press 1964,p.7. [40] J.LECLERCQ,L'amour des lettres & le désir de Dieu,Les
Editions du Cerf, Paris 1958 |
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