I CIELI APERTI

Il racconto del battesimo di Gesù

Clik per il pavone a Delfi
Ravenna.Mosaico del battesimo dal Battistero degli Ariani e Pavoni contrapposti
dal Battistero degli ortodossi.Sec. V-VI d.C.

Struttura e genesi di Mc I,1-13

Estratti da.....


Il testo che prendiamo ora in esame è l'inizio del Vangelo secondo Marco che presenta, sotto la luce della citazione di Isaia profeta, la predicazione del battesimo di penitenza di Giovanni Battista, il battesimo di Gesù e la susseguente sua tentazione nel deserto.

1 Inizio dell'evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
2 Come sta scritto nel profeta Isaia:
Ecco io mando il mio messaggero dinanzi a te,
Perché ti prepari la via:
3 voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
Appianate i suoi sentieri.
4 Giovanni venne nel deserto a predicare un battesimo di penitenza in remissione dei peccati.
5 E a lui accorrevano tutta la Giudea e tutti i gerosolimitani, e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
6 Ed era, Giovanni, vestito di peli di cammello, con una cintura di cuoio intorno ai fianchi, e si nutriva di cavallette e di miele selvatico.
7 E predicava dicendo: "Viene dopo di me colui che è più potente di me, ed io non son degno di chinarmi a sciogliere la cinghia dei suoi sandali.
8 Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà con Spirito Santo".
9 Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazaret di Galilea e si fece battezzare da Giovanni nel Giordano.
10 E, appena uscito dall'acqua, vide i cieli squarciati e lo Spirito, come una colomba, discendere sopra di lui.
11 E una voce venne dai cieli: "Tu sei il mio Figlio diletto; in te mi sono compiaciuto".
12 Subito dopo, lo Spirito lo spinge nel deserto.
13 E nel deserto rimase per quaranta giorni, tentato da Satana; e viveva con le bestie selvagge, e gli angeli lo servivano.

Questo inizio costituisce un'unità costruita mediante addizione di frasi legate da nessi paratattici. Ci è difficile dire se tale aspetto dipenda dal sostrato linguistico aramaico che si riflette nell'impiego della lingua greca e/o da un intento comunicativo che a tutta prima sfugge. In apertura si legge "inizio dell'evangelo di Gesù Cristo", e, secondo l'intestazione più lunga, "figlio di Dio" E' scritto: arké che si suole tradurre "inizio" . Se si confronta l'incipit di Marco con quello di Luca, si scorge subito nel secondo lo scrittore che si rivolge al lettore secondo laregola di una prefazione, mentre le regole seguite da Marco rendono il testo stilisticamente più vicino al resoconto di una visione apocalittica che alla narrazione storica o al discorso oratorio.
Non si dice "libro della buona novella". In questo caso l'incipit non si distinguerebbe da quello di Matteo, che recita "libro della generazione..." e sarebbe quindi semplicemente conforme all'uso letterario, mentre il testo di Marco induce a pensare proprio al principio, al fondamento della buona novella che Gesù ha annunciato.
In questo modo ci discostiamo dalla lettura corrente che vede nel primo versetto l'intestazione o il titolo di un libro, anche se R. Pesch sottolinea che l'inizio della buona novella deve essere inteso "nel senso della sua fondazione" (7). Da questa diversità di lettura deriva che per noi il fondamento della buona novella, cioè della predicazione di Gesù annunciante il regno dei cieli, si riferisce solo al racconto dell'evento del Battesimo in conseguenza del quale comincia la predicazione vera e propria. Per questa ragione l'evento del battesimo è sia inizio storico che fondamento del kerygma evangelico sicché senza la comprensione di quell'evento i racconti appaiono essere soltanto espressione della fede neotestamentaria, come da qualche tempo si insiste nell'esegesi dei Vangeli, senza che in essi si sia in grado di rilevarne la dimensione storica, attribuendo alla fede ciò che invece appartiene al paradigma culturale giudaico-cristiano.
Con la citazione di Isaia,40,3 si introduce la figura di Giovanni Battista. Egli è l'uomo che nel deserto, sulla sponda del Giordano, predica il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati. Una moltitudine dalle campagne attorno a Gerusalemme giungeva a lui per essere battezzata confessando i propri peccati.
Come uomo del deserto egli ha i costumi del beduino e si ciba di ciò che il deserto permette e produce: cavallette e miele selvatico. Giovanni non solo invita alla conversione, ma preannuncia chi deve venire dopo di lui. La caratterizzazione non potrebbe essere più precisa e dettagliata e ha il sapore dell'autenticità e di una solida costruzione.
Con il v. 8 che enuncia la differenza tra i due battesimi, quello di Giovanni nell'acqua e quello di Gesù nello Spirito santo, si ha il passaggio alla seconda sezione. Il v. 12, che recita :" E subito lo Spirito lo spinge nel deserto", ha la medesima funzione del v. 8, quello di segnare il passaggio del racconto dal battesimo a quello della tentazione. L'occorrenza del termine Spirito, che rimanda allo stesso v. 8, pone tra i due versetti una stretta corrispondenza.
Il v. 9 inizia con un'indeterminazione temporale ("in quei giorni") che contrasta con la completa determinazione del nome di chi giunge, della città e della regione di provenienza, del nome del Battista e del luogo: in quei giorni venne Gesù da Nazareth della Galilea e si fece battezzare nel Giordano da Giovanni. A questo punto si potrebbe sostenere che l'informazione sul piano della storia e dell'evento narrato sarebbe completa se solo il tempo fosse determinato e comprensibile dal lettore moderno.
Mircea Eliade sostiene, nella sua Storia delle Religioni, che il racconto o il mito è caratterizzato da una "atemporalità" o "indeterminazione temporale" che si riscontra soprattutto nei racconti e nei miti delle origini. Noi sosteniamo, invece, che la distinzione di tempo sacro e tempo profano non risiede tanto nel fatto che il primo è ciclico e il secondo lineare, come ritiene Eliade, quanto piuttosto nella diversità delle loro rappresentazioni. Diciamo, in generale, che ogni misura di tempo, cioè di intervalli temporali, fa riferimento a cicli che possono essere diversi dall'anno solare, dal mese lunare e dal giorno, come il ciclo della precessione degli equinozi, ad esempio, e avere come origine o un evento storico, come l'inizio di un regno, o un evento celeste, come la longitudine di una stella. In quest'ultimo caso si ha l'era dei Gemelli, l'era del Toro o quella dei Pesci.
La distinzione è dunque tra il tempo degli uomini e della loro storia e il tempo di Dio, o, nelle culture politeistiche, degli dèi, misurato sul movimento del cielo, governato da Dio assiso simbolicamente sul suo trono in cielo.
Per noi, in base a ricerche già pubblicate (8), l'indeterminazione temporale dei racconti antichi è solo apparente, e discende dal sistema di comunicazione culturale dei documenti arcaici, che contengono indirettamente l'informazione temporale, incorporata nella struttura stessa del racconto.
Si consideri che ogni indicazione temporale è sempre l'indicazione di un intervallo rispetto ad un'origine anche quando si scrive una data in anni, mesi e giorni secondo un calendario.
Tornando al testo di Marco, quale origine avrebbe egli potuto scegliere e su quale orologio avrebbe potuto scandire la misura del tempo? Se si confronta il suo racconto con quello di Luca si potrà notare che l'indicazione del quindicesimo anno di Tiberio (Lc. 3,1) si riferisce all'inizio dell'attività del Battista nel deserto, mentre per il battesimo di Gesù il riferimento temporale è dato mediante il numero degli anni di Gesù (Lc. 3,23). Ma con ciò non ne viene una migliore comprensione del racconto del battesimo.
Quand'anche in Marco ci fosse una data essa sarebbe una semplice informazione che non illuminerebbe il racconto stesso, non costituirebbe conoscenza ma notizia. Gli antichi erano però maestri nel comunicare notizie mediante sistemi di conoscenza, mentre noi oggi, immersi nelle informazioni, perdiamo la capacità stessa di conoscere, perdiamo cioè il sistema o i sistemi generali di orientamento, e non solo quelli utili alla lettura e alla comprensione di un testo come quello che stiamo esaminando.
I vv.10-13 ci trasportano immediatamente in un altro contesto, con un tono e uno stile apocalittico e con metafore e immagini apparentemente distanti ed estranee alla narrazione dei fatti. Anche R. Pesch sottolinea questo aspetto: "la maniera di narrare passa dalla notizia del v. 9 ad una inscenatura apocalittico-haggadiga, il cui carattere è indicato nella maniera più appropriata dall'espressione "visione interpretativa" (F.Lentzen-Deis)" (9). I cieli si aprono; lo spirito sotto forma di colomba discende e si posa; una voce dai cieli proclama la figliolanza divina di colui al quale si rivolge. La narrazione si fa concitata nel dire il turbinio del vento (spirito) che improvvisamente sospinge e la registrazione quasi cronachistica dei quaranta giorni [ e quaranta notti secondo un codice] della tentazione di Satana in compagnia delle bestie e la diaconia o servizio degli angeli.
C'è da rimanere senza fiato e si può comprendere che questi passi siano stati baratro per la ragione incredula, pietra di inciampo per la ragione storico-critica, muro per la ragione filologica e letteraria, tentazione al compromesso per la ragione teologico-esegetica. Se i cultori delle scienze storico-critiche sorte nel '600 avessero anche solo sospettato e quindi filosoficamente tematizzato il fossato che divide l'antico dal moderno e non fossero stati così persuasi che il sapere era tutto dalla parte dei moderni, sarebbero stati ben più attenti ad elaborare spiegazioni sulla mitologia, sulla cultura, e sugli stili letterari, che sono semplici ponti di carta su quella frattura epistemologica di cui s'è parlato.
Se pensando all'immagine dei cieli che si aprono sostenessimo che una tale espressione testimonia una cosmografia celeste oggi non più valida, diremmo anche qualcosa di apparentemente ragionevole, ma copriremmo semplicemente la nostra ignoranza su quell'espressione.
Se anche raccogliessimo tutti i passi in cui essa occorre potremmo notare che il verbo greco impiegato da Marco è diverso, ed è ben più forte, di quello che si trova impiegato nei testi di Matteo e Luca e negli Atti, ma non faremmo un passo in avanti. Solo il parallelo che si trova nel finale del discorso di Stefano protomartire suggerisce che l'espressione vedere i cieli aperti sia connessa, ma forse non equivalente, a vedere la gloria di Dio (Atti, 7,55-56); nel senso che la prima espressione implica la seconda ma non viceversa: quando Stefano, ripieno com'era di Spirito Santo, fissò il cielo e, vista la gloria di Dio e Gesù alla destra di Dio, 56 esclamò: "Oh! Vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo alla destra di Dio". Quanto poi a indagare che cosa richieda e comporti l'essere in grado di "vedere la gloria di Dio", dato che i cieli narrano la sua gloria, significa aprire il discorso sulla sapienza nella tradizione ebraica a partire dai Salmi e dal libro di Giobbe. Ma questo non è più il terreno della filologia e della ricerca linguistica. C'è qui una delle radici più profonde dell'esperienza religiosa ebraica, che si coniuga con la cultura e la scienza, ed è il piano su cui il giudaismo, malgrado il suo esclusivismo, si incontrò con tutte le culture e formò ancora in secoli a noi vicini e nel nostro menti aperte alla scienza. Non basta infatti guardare esteticamente i cieli, è necessario saperli vedere.
Se poi si decretasse che Gesù sarebbe stato soggetto ad allucinazioni visive ed uditive sulla base di quei passi, come fu affermato, scritto e pubblicato, con l'impudenza dell'opinione gratuita pari alla presunzione dotta dell'ignorante che ha studiato, il delirio troppo scoperto si confuterebbe da sé. V'è inoltre tutta una serie pietosa di Vite di Gesù del secolo scorso, magistralmente presentate da A. Schweitzer, e altre ancora peggiori, a noi contemporanee.
Certamente l'onestà intellettuale di molti senza ruolo accademico suggerisce di vedere in tali espressioni "metaforiche" un significato tecnico che un tempo era afferrabile e ora non più; mentre sostenere che si tratta di una manifestazione del divino sullo stile delle teofanie della Bibbia significa passare da un significante ad un altro, significa passare dall'ignoto all'ignoto e non dire nulla di diverso sotto l'apparenza del dire.
Ricondurre l'ignoto al noto è la regola aurea, che si distingue però dal ridurre l'ignoto al noto secondo la propria modalità conoscitiva. Ricondurre è la via della ricerca del soggetto che si dispone ad accogliere e ricevere l'ignoto, andandogli incontro, mentre il metodo della riduzione si avvale di sé come criterio per separare ciò che a sé si accorda da ciò che viene creduto estraneo.
Poiché si dice che Dio si rivela adattandosi alla lingua e alla cultura di coloro ai quali si rivela, si applica la teoria dell'involucro o della scorza, storicamente transeunti, e si cerca con operazioni da laboratorio l'essenza stessa del messaggio, trascurando come scarto l'involucro e la scorza. Nei passi di Mc 1,10-13 allora si giunge a vedere una rivelazione diretta di Dio a Gesù (egli vide), e si interpreta la tentazione come conseguenza di una sorgiva coscienza messianica. Peccato che Marco non ricorra alla psicologia e che teologicamente Gesù si ponga come via a Dio e non come l'ascoltatore privilegiato :

non è Dio che si rivela a Gesù, ma è Dio che Gli rivela il suo essere Figlio.

Per questa ragione non crediamo che si possa sostenere che "battesimo e trasfigurazione trascendono nettamente l'intrusione di ogni umana ricerca. Sono pura rivelazione, eventi liberi sottratti a qualunque presa antropologica..." (10). Prima di essere eventi, battesimo e trasfigurazione sono racconti di un testo tramandato che significava qualcosa per chi aveva scritto e per coloro cui era destinato, qualcosa di diverso dal puro appello alla fede, qualcosa che non si riduceva ad essere semplice confessione di fede. Il naufragio del modello autoreferenziale della ragione moderna può capitare non solo all'incredulo ma anche a chi crede: ciò che l'uno dichiara decretando essere favola o mito o altro ancora, collocandolo nell'infrarazionale e prelogico, l'altrodichiara per semplice asserzione essere pura rivelazione al di là della ragione, sovrarazionale. L'errore dell'uno è simmetrico a quello dell'altro. Si tratta di comprendere ciò che il testo dice, e di riproporlo con tutta la mappa delle vie che possono nuovamente essere ripercorse da altri.
Ora, ritornando al nostro testo, al v. 12 viene detto che lo spirito come vento sospinge. Qui si dovrebbe pensare l'azione dello spirito sull'uomo come movimento della volontà attratta dal bene, non già come impulso esterno e cogente della volontà, poiché tale azione comporta l'adesione alla verità. Che l'azione dello spirito muova gli uomini nella storia, oltre averli vivificati, fa parte del resto di un dato tradizionale del pensiero religioso biblico.
Ma a questo punto occorre un'attenzione più puntuale al testo, in cui il termine spirito compare ben tre volte in pochi versi. E se la terza volta (v. 12), quella su cui ci siamo appena soffermati, può essere ricondotta senza difficoltà alla prima (v. 8) (cioè allo Spirito santo del battesimo) il riferimento intermedio sembra invece meno facilmente riconducibile a un ambito soltanto morale. Si legge infatti: "vide i cieli squarciarsi e lo spirito come una colomba discendere su di lui".
L'immagine dello spirito come colomba sarà ricorrente in tutta la posteriore iconografia del Battesimo. Ma il riferimento ai cieli che si aprono colloca questa immagine in un ambito chiaramente cosmologico. Il che ci rinvia, e ciò acquista un particolare significato in un testo in cui l'evangelista presenta il fondamento e l'inizio della buona novella annunciata da Gesù, a quello spirito che si librava sulle acque il primo giorno della creazione: il cui significato, non essendo ancora stata creata l'umanità, si riferisce indubitabilmente all'universo, al cosmo.
Le domande che qui si impongono - e dalle loro risposte dipende il seguito del discorso - sono dunque le seguenti: lo Spirito di Dio muove solo il mondo della storia oppure l'effetto della sua presenza fa muovere anche i cieli e il cosmo? E se fa muovere i cieli, con quale sapere si può esprimere la misura del movimento nel cosmo? E che cos'è la misura del movimento se non l'espressione di un intervallo temporale? A quale sapere appartiene la competenza di scrivere intervalli temporali in rapporto al movimento del cielo, come espressione della presenza dello Spirito di Dio?
Che lo Spiritus Dei (Ruah Elohim) non concerna innanzi tutto il mondo dell'uomo, ma il cosmo, si può dimostrare dall'inizio del Genesi quando si afferma che lo spirito di Dio si librava sulle acque (Gen. I,1).
Un testo di tradizione rabbinica, il Beresit Rabbâ (II,4), ci permette di compiere un ulteriore passo. In esso viene messo in relazione il versetto del Genesi con un versetto del capitolo 11 di Isaia relativo al Messia: " e lo Spirito di Dio aleggiava: si riferisce allo Spirito del Re Messia, com'è detto: Sopra di lui si poserà lo Spirito del Signore (Is.11,2)" (11). Poiché in Mc 1,10 si dice che sotto figura di una colomba lo Spirito discese posandosi su Gesù, noi siamo autorizzati a vedere in questa espressione sia il riferimento all'inizio del Genesi, e quindi al significato cosmologico di vento o spirito in rapporto al movimento del cielo, sia al significato del versetto citato di Isaia 11,2 e mediante la presenza della colomba ad un altro passo del Genesi e precisamente al racconto del Diluvio, come vedremo in seguito.
Tenendo conto delle domande e dei passi riferiti, se si vuole togliere al racconto di Marco l'indeterminazione temporale di "in quei giorni" è necessario ricercare se nella struttura stessa del racconto, data ad esempio dalle occorrenze dei termini, siano rintracciabili sequenze numeriche mediante le quali si possono scrivere intervalli temporali secondo quel sapere relativo al movimento del cielo governato da Dio e mosso dal suo spirito (12). Il numero dei giorni e delle notti, esplicitamente indicati al v.13, conclusivo, serve appunto per tale scrittura.
La conseguenza di scrivere un intervallo temporale secondo una modalità arcaica si è imposta a partire dal testo letto all'interno della tradizione giudaica in genere e di quella apocalittica in specie, la cui conoscenza richiediamo al lettore.
I testi profetici si distinguono infatti da quelli apocalittici perché v'è in questi ultimi un'attenzione al calcolo del tempo e alla periodizzazione del tempo della storia finalizzata a "conoscere la data della fine dei tempi" (13). Tale attenzione caratterizza l'apocalittica giudaica con testi sia anteriori che posteriori al cristianesimo . Dice Delcor: "Le concezioni apocalittiche della periodizzazione della storia secondo uno schema prestabilito divergono radicalmente da quelle dei profeti. S.B.Frost ha ragione di osservare in proposito: "Che un regno possa essere pesato su una bilancia ed essere trovato leggero, è un dato profetico; che possa essere diviso, è un annuncio del giudizio nello stile di un Isaia; che possa essere numerato, invece, dipende solo dal pensiero dell'apocalittico." (14).

f) L'autore dello schema temporale e la metafora dei cieli aperti



Rimangono ancora numerosi problemi aperti per la comprensione del testo di Marco. Innanzi tutto il significato del sintagma delle visioni apocalittiche dei cieli aperti, che sono addirittura squarciati. C'è un unico passo di Isaia 63,19b, ricordato da R. Pesc (22) in cui nel testo masoretico ricorre l'insolito verbo che i LXX traducono semplicemente con l'usuale aprire. Tuttavia nel passo di Isaia si tratta di una invocazione a che i cieli si squarcino e Dio si mostri in una teofania e non può essere addotto per l'intelligenza del testo.
La metafora del cielo aperto implica che generalmente il cielo sia chiuso e si tratta di sapere che cosa fa sì che il cielo si apra. L'apertura del cielo è la condizione di un vedere e così viene generalmente inteso: La catabasi dello Spirito è la rappresentazione visionaria del fatto indicato dalla voce celeste (v.11): Gesù è l'Unto escatologico, sul quale scende lo Spirito di Dio, così R. Pesc (23). Secondo questo studioso, lo Spirito assume la forma della colomba per rendere "visibile ciò che è celeste ed invisibile" (24) . Questa lettura privilegia il punto di vista letterario, secondo il quale la comprensione del testo deriva dalla coerenza semantica della successione dei tre versetti: apertura del cielo, discesa dello spirito come colomba (oggetto della visione) e voce dal cielo (significato della scena), letti semplicemente come metafore letterarie della tradizione apocalittica, senza alcun riferimento ad un possibile evento se non a quello interiore della visione. Sostenere che "l'unico mezzo di rappresentazione può essere l'uccello in quanto creatura appartenente […allo] spazio aereo compreso fra cielo e terra" (25) significa ricondurre la scelta dei significanti da parte del redattore antico ad una logica della composizione letteraria del racconto più moderna che antica.
La lettura precedentemente proposta implica che la metafora dei cieli aperti abbia un significato tecnico tipico della cultura arcaica i cui codici dipendono dalla conoscenza della cosmologia arcaica. Un cielo è aperto se chi guarda il cielo sa collocare il tempo della sua visione rispetto ad un origine e sa collocare il tempo dell'evento o di ciò che viene visto. Solo rispetto ad un sapere il cielo narra la gloria di Dio oppure risulta aperto. Senza questo sapere si rimane nell'ambito letterario del racconto di vita quotidiana o di un evento storico, come l'ascesa di un re o il resoconto di una battaglia.
Che cosa avvenne al Battesimo di Gesù di così improvviso e violento concernente il cielo? L'aver trasformato sulla base delle indicazioni trovate sull'absidiola sud della chiesa romanica di San Secondo a Cortazzone d'Asti lo schema temporale in date secondo la nostra cronologia permette di ulteriormente procedere nella ricerca. Il 24 novembre del 29 a.C. , come diremo più avanti, avvenne un'eclisse solare totale che interessò la Palestina con una oscurità completa sulla città di Damasco e Gerico si trovò ancora nella fascia della totalità o vicino ad essa. Non c'è nulla di più improvviso e violento che un'imprevista e imprevedibile eclisse solare totale, sicché i cieli si squarciano in modo sensibile, permettendo di giorno la visione di alcune stelle.
Con questa informazione possiamo allora ricercare se l'espressione cieli aperti significhi la conoscenza delle condizioni generali di un eclisse solare per un determinato novilunio senza sapere se e dove l'eclisse sarà poi visibile. I passi degli Atti, relativi alla visione di Stefano (Atti, 7,55-56) permettono forse di corroborare la nostra lettura:

7,55 Stefano, ripieno com'era di Spirito Santo, fissò il cielo e, vista la gloria di Dio e Gesù alla destra di Dio,
56 esclamò: "Oh! Vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo alla destra di Dio".

Ciò che deve essere ricercato è l'origine rispetto a cui Stefano ha collocato il tempo della sua visione, che si desume da ciò che viene visto: il Figlio dell'uomo alla destra di Dio. Il contenuto della visione rimanda al Natale o a nove mesi prima, al tempo dell'Annunciazione, cioè al 25 dicembre del 6 a.C. o al 4 aprile del medesimo anno. Questa data è quella di un plenilunio in cui avvenne un'eclisse lunare, seguita al novilunio successivo del 18 aprile, da un'eclisse solare visibile a Gerusalemme. Se questa è l'origine rimane solo da controllare se 7,55 mesi dopo, cioè 475 mesi dopo, al 12 settembre del 33 d.C., si diano le condizioni generali di un eclisse solare. L'intervallo temporale è stato semplicemente letto in base alla suddivisione redazionale degli Atti (7,55). Si tratta di un novilunio con le condizioni di un'eclisse parziale non visibile a Gerusalemme. Ed è avvenuto di sabato.
Secondo il racconto il discorso di Stefano avvenne dinanzi al sinedrio, alla presenza del sommo sacerdote. Da esso emerge che Stefano fosse nella primitiva comunità di Gerusalemme l'uomo più colto, e, con quella competenza tale che lo rendeva capace di essere l'autore dello schema temporale che sottende il racconto di Marco. Infatti nessuno dei suoi interlocutori - così viene precisato (Atti, 6,10) - era "in grado di far fronte alla sapienza e allo Spirito che lo faceva parlare". Con ciò tuttavia non si vuole sostenere che Mc 1,1-13 dipende direttamente dall'opera di Stefano, ma semplicemente che quello schema fu ben presto scritto. La sua eliminazione mediante lapidazione ben difficilmente può essere compresa come semplice effetto di un moto inconsulto di ira che coinvolse gli astanti. Senza l'opera di Stefano si rendeva infatti difficoltosa quella rilettura della storia della salvezza, già presente nel suo discorso.

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L'attività della comunità di Qumran comprendeva sia la produzione di rotoli biblici come un vero e proprio scriptorium (29) per la committenza essena nella Giudea, sia ricerche di studiosi della legge come testimoniano i midrashim tematici ivi ritrovati. Il riferimento specifico agli scribi divenuti discepoli del regno dei cieli potrebbe essere un'allusione allora chiara e oggi non più a quella comunità e/o agli esseni della Giudea: "Perciò ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e antiche" (Mt.13,52). Subito dopo, l' evangelista (Mt.13,54: et veniens in patriam suam docebat eos in synagogis eorum) fa ritornare Gesù in Galilea per il suo insegnamento nelle sinagoghe. Tuttavia con ciò non intendiamo proporre speculazioni sui rapporti di Giovanni Battista e di Gesù con l'ambiente qumranico.
Le argomentazioni di Hartmut Stegemann ci sembrano forti nell'escludere una dipendenza da Qumran e dagli esseni della Giudea sia della predicazione e del battesimo di Giovanni che dell'annuncio del "regno dei cieli" di Gesù. Quanto agli "esseni" la conclusione dello studioso pare imporsi: "gli esseni possono essere considerati ancora una volta , come al tempo di Gesù - si pensi solo al grande elogio che ne fanno Filone e Giuseppe Flavio - il centro del giudaismo del tempo, anche se nel Nuovo Testamento essi non compaiono come "esseni", ma solo come "dottori della legge" ed "erodiani" (30).
L'analisi stringente che lo studioso dei testi di Qumran fa della predicazione e del battesimo di Giovanni Battista proprio sulla sponda orientale del Giordano, proprio là "di fronte a Gerico dove un giorno Giosuè aveva introdotto il popolo di Israele nella Terra Santa", non solo fa comprendere come "in una sorta di azione profeticasimbolica Giovanni poneva così il popolo di Israele davanti al passaggio nel futuro tempo della salvezza" (31), ma anche il significato della condivisione profonda da parte di Gesù della prospettiva di salvezza del Battista.
Risulta così decisiva la questione che egli si pone e la ricerca che ne è conseguita. "Rispetto alla situazione in cui si era trovato il Battista deve essere avvenuto qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa che agli occhi di Gesù si configurò come il regno di Dio. Solo questo nuovo ha prodotto quella relativa autonomia di Gesù rispetto a Giovanni che è attestata nei Vangeli." (32). Egli sottolinea che furono "gli eventi del proprio ambito di esperienza" "e non un'esperienza di vocazione o la presenza di espressioni e immagini del suo ambiente" a provocare l'annuncio del regno di Dio (33). Così testimone dal momento del battesimo dell'azione di Dio sulla terra, egli "fu anche fin dall'inizio il decisivo interprete di tali avvenimenti quali azioni di Dio, nelle quali il regno di Dio cominciava ad instaurarsi" (34).

h) I cieli squarciati: il segno del cielo e l'annuncio del regno



In rapporto a questa tesi di Stegemann e alla prospettiva di ricerca in essa implicata ciò che diremo ci pare essere più un rafforzamento che una critica e come tale lo presentiamo, anche se è una ulteriore prova di quella frattura epistemologica che impedisce agli studiosi di afferrare il significato denotativo delle enigmatiche metafore dei testi antichi.
L'evento nuovo che sta alla base dell'annuncio del regno dei cieli e che lo studioso trova nell'ambito dell'esperienza di vita di Gesù è concomitante al battesimo ed è precisamente indicato nel testo. Si tratta di quella esperienza della visione della gloria di Dio implicata nell'esperienza dell'apertura dei cieli, come abbiamo già indicato sulla base del discorso di Stefano protomartire.
In tutti i modi abbiamo cercato di sottrarci a questa conclusione, cercando di scrivere un altro possibile intervallo temporale. Il 24 novembre del 29 d.C. ci fu un evento nel cielo per il quale si adatta l'espressione enigmatica dei cieli aperti, o meglio squarciati, scissi. La subitaneità e la violenza dell'evento è ben espressa nel testo di Marco. La metafora di un cielo che si apre implica un far vedere, un mostrare quello che normalmente non si vede. Il verbo greco corrisponde al latino scindo. Il quel giorno intorno alle ore 11 a.m., ora locale di Gerusalemme, ci fu un'eclisse solare totale con magnitudine 0,96. La mappa del cielo, elaborata al computer, mostra quali stelle e quali costellazioni sono alte sul cielo di Gerusalemme poco prima dell'istante della totalità, quando Arturo, la stella di Giobbe, e il piede del Centauro, stanno passando al meridiano di Gerusalemme.

È un vero e proprio segno del cielo, quello che il Vangelo indica e non un evento astronomico, come la cultura scientifica d'oggi ci ha abituato a vedere. È un segno del cielo in cui appare la gloria di Dio, in cui appare la signoria di Dio nei cieli, è un evento in cui appare il "regno dei cieli". Sicché nella preghiera del Pater noster si auspica che venga fatta la volontà di Dio come in cielo così in terra. Si osservi che l'evento della sparizione della luce con il ritorno della medesima esprime analogicamente e simbolicamente sul piano cosmologico l'annuncio della morte e della resurrezione di Gesù che caratterizzò la primitiva predicazione della comunità di Gerusalemme.(35)

Note



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