Dante e l'Islam

DANTE E L'ISLAM

La risposta cristiana al Libro della scala


Nel nostro tempo, data la complessità storica del rapporto dell'Occidente con l'Islam e quello dell'Islam con l'Occidente, la lettura e la comprensione di Dante appaiono, secondo noi, decisivi per stabilire il piano su cui potrebbe avvenire il ritorno ad un reciproco confronto culturale, prima che la perdita della memoria delle proprie rispettive radici abbia una catastrofica conseguenza. Una tale tesi, paradossale nel nostro tempo, deriva da una lettura dell'opera dantesca sulla base di ricerche sul codice iconico-narrativo della comunicazione arcaica, la cui applicazione è esemplare nella Vita Nuova, nel Convivio e nella Divina Commedia.


Nel 1919 Miguel Asin Palacios pubblicava La escatologia musulmana en la Divina Commedia ponendo agli studiosi di Dante il problema delle fonti arabe-spagnole per le indubbie analogie tra la costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia e l'escatologia musulmana. Infatti nella tradizione culturale dei paesi islamici era particolarmente diffuso in varie versioni il racconto del viaggio ultraterreno del Profeta, cioè il Kitab-al-Mi'rag, diffusione testimoniata dalle numerose miniature persiane e turche su tale viaggio.
I dantisti italiani non accolsero favorevolmente l'ipotesi dell'orientalista spagnolo, che si basava su numerose analogie e somiglianze collezionate da vari testi, ma non dalla traduzione latina del Libro della scala di Maometto, che non era ancora stata edita. Invece nei paesi arabi il libro di Asin Palacios trovò un'accoglienza quasi trionfale. Possiamo qui ricordare L'influenza della cultura islamica sulla Divina Commedia di Dante di Salah Fadl , pubblicato al Cairo nel 1980, secondo il quale «Dante è un autentico sufi, o per lo meno ragiona e si comporta come tale».
Nel 1994 apparve la traduzione italiana dell'opera di M. A. Palacios con la successiva sua risposta ai dantisti ed orientalisti, con una nota dei traduttori sull'accoglienza nei paesi islamici dell'ipotesi di Palacios e una introduzione di Carlo Ossola.
Solo nel 1949 lo studioso italiano Enrico Cerulli pubblicava nella Biblioteca Apostolica Vaticana per la prima volta la edizione nei testi francesi e latino del Libro della scala, che alla corte del re Alfonso X il Savio fu dapprima tradotto in castigliano dal medico ebreo Abraham e in seguito nel maggio del 1264 ritradotto in francese e latino dal notaio senese Bonaventura.
A Firenze la traduzione di Bonaventura forse giunse tramite Brunetto Latini, che era stato per un certo periodo ambasciatore di Firenze alla corte di Alfonso X. Pare infatti che recentemente sia stato scoperto che il titolo si trovi menzionato in una lista di libri formanti la sua biblioteca.
La traduzione dal latino in italiano del Liber scalae Machomethi avvenne solo molto più tardi, nell'ultimo decennio del xx secolo, essendo sorto da noi un interesse alla cultura islamica, interesse suscitato dagli immigrati provenienti dai paesi di cultura e religione islamica.

Il racconto narra come il profeta in groppa a Buraq, che significa il bagliore del Lampo, giunge, partendo da Gerusalemme, in Paradiso, e, accompagnato dall'arcangelo Gabriele, incontra varie figure di profeti, avvicinandosi al trono di Dio. Esso si basa su un versetto del Corano, Sura XVII,1, su cui, secondo la postfazione di Carlo Saccone, "la fantasia popolare aveva poi lungamente ricamato (…), arricchendolo di numerosi elementi fantastici che compariranno nelle molteplici redazioni della leggenda". Anche per A. Palacios il Kitab-al-mi'rag è giudicato racconto popolare e leggenda.
Secondo i criteri letterari moderni il Libro della scala appartiene senza dubbio al genere della leggenda e del racconto popolare, tuttavia c'è da domandarsi se sia la fantasia popolare all'origine del corsiero alato, veloce come il lampo, se essa sia all'origine dei sette cieli attraversati dal Profeta fino al trono di Dio, e così via. C'è da domandarsi se la figura fantasiosa del cavallo Buraq – il lampo – non sia invece il frutto di una cultura che si serve di significanti naturalistici per significare qualcosa di molto tecnico.
La separazione netta tra la letteratura e la scienza appartiene ad una cultura scritta e si trova già in Grecia, ma non appartiene a quella che si può definire cultura arcaica, la cui modalità di comunicazione è orale mediante racconto e visiva mediante immagini. In altri termini se vengono problematizzate le categorie mediante cui avviene generalmente la ricerca storica, si può vedere che esse non tengono conto di ciò che ha comportato l'introduzione in Grecia della nuova tecnologia della comunicazione dovuta alla scrittura alfabetica fonetica. Essa comportò per noi una profonda cesura nella possibilità di conoscenza del mondo arcaico del mito e dell'immagine rispetto alla conoscenza dei testi filosofici, scientifici e di quelli letterari nella misura in cui essi non fanno riferimento alla cultura arcaica o non ne seguono il suo codice iconico-narrativo.

Solo l'esame e lo studio delle immagini della ceramica vascolare nelle varie culture, da quella greca a quella di Samarra e a quella elamita del IV millennio, ci ha permesso prima di intuire e poi di ricostruire il modello aritmetico della cosmologia arcaica, alla cui ricerca siamo stati condotti dallo studio del Il Mulino di Amleto di Giorgio de Santillana. Un tale sapere si presenta come un compiuto calcolo del tempo, incentrato su una struttura cosmografica che nelle varie culture arcaiche si nasconde dietro l'espressione del trono di Dio o di quello, per la cultura greca, di Zeus.
Poiché la distanza da quelle culture si è fatta sempre più grande e non siamo più il pubblico cui erano destinati né Il libro della Scala, né l'opera di Dante, né tantomeno, l'Apocalisse o i libri dei Proverbi e dell'Ecclesiastico dell'Antico Testamento o le sure del Corano, avviene che rispetto ad alcune espressioni che troviamo nei loro testi, non siamo più in grado di coglierne il significato tecnico all'interno della loro cultura.
Perché mai l'Apocalisse pone, ad esempio, un'equivalenza tra le stelle e gli angeli? Se osserviamo di notte il cielo vediamo stelle e non angeli. Essendo gli angeli messaggeri per un evento il cui tempo è determinato da Dio, sicché hanno un rapporto intrinseco al tempo dell'evento di cui sono messaggeri, allora possiamo pensare che essi, gli angeli, abbiano un rapporto con il cielo delle stelle fisse, in quanto tale cielo apparve fin dalla più remota antichità un grande orologio governato da Dio. E simbolo del governo è appunto il trono. Si tratterà allora di sapere in quale regione del cielo porre il trono di Dio, se si vuol comprendere Isaia 66,1 secondo il quale il cielo è il trono di Jahve e la terra lo sgabello dei suoi piedi. Si tenga presente che quel testo, l'ultimo del rotolo di Isaia, comprende ventiquattro versetti.
Perché mai Dante mette in guardia dal seguirlo a meno che per tempo ci si è dedicati al "pan de li angeli" (Paradiso, II,11)? Che cosa intendeva e veniva inteso dal suo pubblico con tale espressione?
Dalla difficoltà di rispondere con sicurezza a queste domande possiamo pensare che nei documenti della cultura arcaica vi sia un sapere, tecnicamente articolato, di cui si sono perse le tracce, per quella frattura generata dalla scrittura alfabetica fonetica, che comportò progressivamente nella nostra storia culturale una vera e propria frattura epistemologica.
Tuttavia si deve considerare che tale sapere non fu mai l'oggetto di un discorso a se stante, ma fu solo e sempre il quadro entro cui vennero composti i testi antichi. Come Havelock ha mostrato, prima della diffusione della scrittura alfabetica fonetica, non vi sono nei poemi omerici, risposte astratte alla domanda che cos'è la giustizia, ma solamente il racconto di comportamenti giusti e ingiusti in quella determinata situazione narrata. Nello stesso modo il sapere arcaico, relativo al tempo, veniva comunicato mediante il racconto o l'illustrazione per immagine di un evento, per la descrizione del quale intervenivano parametri numerici determinati. Per loro quell'evento non era un caso qualsiasi o un esempio di una teoria astratta, come per noi una determinata equazione rispetto alla forma generale dell'equazione, ma ciò che permetteva un racconto unitario o una immagine compiuta per le caratteristiche particolari dell'evento non per quelle generali che ricerca la scienza.
Se il pianeta Giove, ad esempio, si fosse trovato in congiunzione con il Sole, e ciò capita ad intervalli secondo un ciclo ben determinato, per noi non importa in quale tempo o a quale longitudine del sole ciò avvenga, mentre per gli antichi se il Sole si fosse trovato a longitudine 66°, si trattava allora di una particolare coincidenza che permetteva o un racconto o una illustrazione. Così il pittore Oltos volle rappresentare su di un vaso, che si trova al museo di Tarquinia, Giove seduto sul trono con Mercurio e Venere e Ganimede che versa acqua nella coppa,che Zeus tiene con la mano destra, mentre con la sinistra brandisce il simbolo del fulmine.
Se non si sa che il fulmine è il nome arcaico di una differenza temporale in giorni tra due cicli, quello dell'anno tropico e quello dell'anno sidereo del sole, non si fa neppure attenzione che la coppa in mano a Zeus è marcata da tacche e puntini, che indicano il tempo in cui è avvenuto il concilio degli dei e la congiunzione di Giove con il Sole. Si può pertanto con la conoscenza degli algoritmi della cosmologia arcaica giungere per la congiunzione raffigurata alla data del 5 giugno del 526 a.C. La coppa di Oltos viene datata con criteri propri dell'archeologia attorno al 530 a.C. dalla studiosa tedesca Erika Simon, mentre da John Boardman l'attività del pittore è collocata dal 525 al 500 circa.
Se il fulmine, riferito a Zeus, ha questo significato tecnico, come abbiamo detto, allora il lampo e il tuono, con i quali il fulmine avviene, sono designazioni tecniche di altre due differenze che insieme costituiscono la differenza tra l'anno sidereo e l'anno tropico del sole. Il lampo esprime l'intervallo temporale come differenza dell'anno sidereo dall'anno giuliano, mentre il tuono è in rapporto alla differenza tra l'anno giuliano e quello tropico. Il significato tecnico del cavallo Buraq, che trasporta Muhammad in cielo, comincia a disvelarsi e mostra come la leggenda sia costruita secondo un codice culturale basato su di un sapere analogo a quello astronomico-scientifico.
Dunque la cultura arcaica si esprime e comunica mediante un codice iconico-narrativo modellato su di un sapere cosmologico relativo al computo del tempo. Tale sapere è una cosmocronologia analoga alla nostra cronologia astronomica.

Poiché secondo la definizione aristotelica, ricordata da Dante nel Convivio, il tempo è numero del movimento secondo il prima e il poi, il problema della composizione di un testo sarà quello dell' invenzione di un racconto o di una poesia, la cui struttura comunica determinate sequenze numeriche o permette di risalire ad esse.
Dante stesso ci avverte del problema nel Convivio. Dall'ipotesi «se lo volgare per sé studiare potesse» trae una conseguenza apparentemente paradossale: il volgare ricercherebbe la propria stabilità e la troverebbe soprattutto nel legar sé con numero e con rime. Non crediamo che in queste parole vi sia solo la funzione della metrica e del ritmo musicale: infatti la stabilità non riguarda la lingua che muta. Pensiamo piuttosto che il "legar sé con numero e con rime" concerni la stabilità della comunicazione dell'informazione intorno alle sequenze numeriche.
Pertanto la questione fondamentale dell'invenzione poetica è connessa alla questione del calcolo del tempo ed ha, come vincolo, quello di saper esprimere i tempi trascorsi secondo tutti i possibili modi derivati dalla precessione degli equinozi e dai moti delle altre sfere; si tratta allora di vedere come i numeri che esprimono gli intervalli e le longitudini possano essere comunicati mediante le composizioni poetiche. I modi sono diversi, da quello di numeri che occorrono nel testo, a quello di termini chiave che occorrono a determinati versi, dalla struttura generale del testo, e così via.

Anche una lettura superficiale della Vita Nuova permette di sapere che gran parte delle composizioni poetiche – sonetti, canzoni e ballate – vengono commentate dopo una loro divisione. Per lo studioso inglese Singleton si possono comprendere tali divisioni se si accetta l' «idea che il modo in cui si guarda una poesia può essere un'imitazione del modo in cui si guarda il mondo». Mai intuizione fu così vicina alla verità. Se il medioevale guardava il mondo come il libro della creazione, come il manoscritto cifrato di Dio, le divisioni rimandano precisamente a sequenze numeriche significative nel contesto della conoscenza del libro della natura, letto e contemplato, però, con gli occhi di quella sapienza con cui Dio lo aveva creato al principio. L'alfabeto di questa sapienza relativa al gran libro della natura, tuttavia, non era quello della scienza greca, come Galileo Galilei aveva suggerito e seguito, ma qualcosa di molto più arcaico, era un semplice modello o schema aritmetico di calcolo.
Volendo comunicare la sequenza numerica sessagesimale 14,2,12 è sufficiente suddividere il sonetto in due parti, composti da due e dodici versi. Il sonetto Venite ad intender li sospiri miei della Vita Nuova è suddiviso proprio in questo modo.
Tutt'altro problema è invece ricercare a quale evento Dante voglia riferirsi o alludere con tale divisione e perché, senza aver prima operata la ricostruzione completa del sapere arcaico che concerne non solo il calcolo degli intervalli ma anche i tempi di origine delle varie culture, altrimenti tale schema di calcolo è vuoto e vano. In altri termini, il sapere del cosmo deve essere ancorato ad eventi della storia, altrimenti si perde sia il cosmo che la storia. Se la sequenza numerica da comunicare fosse invece 9,39,31 si può vedere che nel sonetto Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io, tali numeri trovano una perfetta corrispondenza ai famosi versi 9- 10 e sono da questi facilmente derivabili:

9 E MONNA VANNA E MONNA LAGIA POI
10 CON QUELLA CH'È SUL NUMER DE LE TRENTA

La stessa struttura del sonetto, una probabile invenzione del notaio Giacomo da Lentini, composto da due quartine e due terzine potrebbe rimandare o alludere ad una sequenza numerica relativa ad un evento che rinnovò la storia, come il saluto di Beatrice fu l'inizio per quel rinnovamento cui si riferisce la Vita Nuova già nel titolo.
I riferimenti temporali e cronologici nella Vita Nuova non sono affatto estrinseci o accidentali all'invenzione poetica. Proprio all'inizio troviamo il riferimento alla sfera della luce, i cui nove giri indicano i quasi nove anni del poeta, mentre l'età di Beatrice è data sul moto di una sfera, che non è quella ottava delle stelle fisse, ma la nona, introdotta in astronomia per spiegare l'aumento annuo della longitudine delle stelle dovuto al moto precessivo; dovuto cioè al moto lentissimo del polo celeste lungo una circonferenza attorno al polo dell'eclittica. Perché mai per Beatrice si esprime il tempo come se essa fosse una stella?
La risposta a questa domanda mostra il significato di quella sequenza che si ritrova nei versi 9-10 del sonetto citato, essa riguarda Beatrice non tanto come figlia di Folco Portinari, ma quanto quella "gloriosa donna" di cui si parla all'inizio della Vita Nuova
Allora il problema delle fonti arabe-spagnole, posto da Palacios, non si risolve solo nell'accertamento storico-filologico dei testi letti da Dante, delle somiglianze e analogie che si possono riscontrare nella Divina Commedia con alcuni testi di autori islamici, ma dal modo in cui Dante avrebbe potuto leggere quei testi come altri della tradizione biblico-cristiana, giudaica o classica.
L'ipotesi dell'orientalista Palacios, indipendentemente dalla sua metodologia di ricerca e dai risultati raggiunti, poteva essere esaminata con maggior serenità di giudizio, se si fosse colto nella data di morte di Beatrice, l' 8 giugno del 1290, almeno un segnale e un indizio del rapporto di Dante con l'Islam. Infatti la morte di Beatrice viene situata da Dante in coincidenza con l'anniversario della morte del Profeta dell'Islam, avvenuta l' 8 giugno del 632 d.C. e viene commentata con un riferimento esplicito al calendario in uso in Arabia. Se i dantisti hanno sempre considerato irrilevante questo riferimento, ritenendolo una pura coincidenza, tuttavia non ci risulta che essi abbiano rilevato almeno la coincidenza delle due date.
Nel Convivio viene indicata astronomicamente un'altra data, quella del giorno in cui, secondo le parole di Dante, «quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente accompagnata d'Amore a li occhi miei, e prese luogo alcuno de la mia mente» (Convivio,II,II,1). Secondo il calendario cristiano corrisponde al 19 agosto 1293, mentre secondo il calendario arabo siamo al giorno 16 del mese di ramadan del 692 dell'era islamica. Se la donna gentile, il cui amore fu in conflitto con quello verso Beatrice, apparve a Dante nel mese sacro dell'Islam, mese in cui avvenne anche il viaggio notturno del Profeta, abbiamo un'ulteriore indizio per ricercare, senza pregiudizi, il rapporto di Dante con l'Islam. Dopo il riferimento al calendario arabo nella Vita Nuova non si può negare che Dante sapesse di questa corrispondenza.
Allora il saluto di Beatrice, avvenuto simbolicamente al diciottesimo anno del poeta, rimanda e allude ad un altro saluto, è lo specchio dell'Angelus Domini , quello dell'arcangelo Gabriele a Maria.
Non si tiene sufficientemente in conto che lo stile cronologico della cancelleria di Firenze, a cui giunse anche Brunetto Latini dal 1272 al 1274, calcola il tempo a partire dall'Annunciazione e non a partire dal Natale. Perché mai dopo Giotto più frequenti sono le rappresentazioni del saluto dell'angelo nelle chiese? Perché mai nel bellissimo tabernacolo di Orsanmichele a Firenze la formella ottagonale dell'Annunciazione dell'Orcagna, che come architetto dirigeva i lavori intorno al 1358-59, è attorniata da ben sessantatre conchiglie? Forse per suggerire che il primo plenilunio dell'era cristiana si trovò a 63 mesi lunari dal Natale, avvenuto nove mesi dopo l'Annunciazione?
Il riferimento del saluto di Beatrice a quello dell'arcangelo Gabriele, che costituisce il primo secreto o mistero rivelato da Cristo, imperatore dell'universo, come vien detto nel Convivio, permette di porre una proporzione, di costituire una analogia. Come Maria sta all'arcangelo, così Dante sta al saluto di Beatrice, ma tra i due saluti si pone la rivelazione dell'arcangelo al Profeta Muhammad. Non si pensi che il nome di Beatrice, dato da quelli che non sapevano come si chiamasse, come precisamente osserva Dante, sia fuori luogo, se visto in connessione all'arcangelo, dato che ai versetti 27-28 della Sura 53, Della Stella, si legge, nella traduzione di A.Bausani:
In verità coloro che non credono nell'Oltre, nomano gli angeli di nomi di femmina e non ne sanno nulla,
il cui senso pare riferirsi alle tre dee preislamiche venerate dalle tribù pagane della Mecca.

Il tempo che intercorre dal saluto di Beatrice a quello della morte del Profeta è quasi pari a quello che intercorre dalla morte del Profeta all'Annunciazione. Il primo intervallo è calcolabile perché si tratta di sapere quanti mesi lunari intercorrono dal 11 giugno del 1283 al 8 giugno del 632: sono 8052 mesi lunari, la cui sequenza sessagesimale si esprime in 2,14,12 mesi, ricavabile con una semplice permutazione dalla sequenza relativa alla divisione del sonetto Venite ad intender li sospiri miei. Dante ha cura di indicare quanti mesi devono essere sottratti per giungere al tempo simbolico dell'Annunciazione, sottolineando insistentemente che il nove è il quadrato del tre, che il saluto avvenne all'ora nona, rimanendo della giornata altre tre ore.
Da quanto detto finora, dovrebbe essere chiaro che il percorso dell'invenzione di un testo arcaico inizia con uno schema temporale, espresso secondo quel sapere intorno al tempo, e tale schema deve essere individuato da parte del lettore nel processo della lettura.
Comprendere l'origine del tempo e le modalità delle sue espressioni esige che si comprenda che tutto il cielo apparentemente ruota su di un asse centrato al polo celeste, che però non è fisso, ma che a sua volta si muove in modo lentissimo lungo un cerchio attorno ad un centro, saldo e fisso nel cielo, la sede di ciò che gli antichi hanno chiamato trono di Dio o di Zeus.Se per esprimere questa struttura ci si limita a dire che il polo è centro e circonferenza, si pone solo un'enigma che può essere risolto solo da chi ha ben presente in termini scientifici la struttura della precessione. Da quel trono, ci dice l'Apocalisse, escono lampi e tuoni e quella differenza tra anno sidereo e anno tropico del sole chiamata arcaicamente fulmine è conseguenza appunto di questo moto di rivoluzione lentissima del polo celeste attorno ad un centro. Possiamo pertanto su di una carta stellare descrivere due circonferenze con il medesimo raggio, proporzionato alla distanza angolare tra i due poli, che abbiano però come rispettivi centri proprio questi due poli e disegniamo così le due corone dei beati del canto XIII del Paradiso.
Non siamo ancora in grado di vedere come l'opera di Dante, Vita Nuova e Convivio compresi, possono essere visti come la risposta cristiana al Libro della scala, perché non abbiamo ancora visto il momento in cui nella biografia intellettuale e letteraria del poeta si fece strada il suo grandioso progetto. Sappiamo che nel 1287 Dante soggiornò sei-sette mesi a Bologna e che questo breve periodo (estate 1286 e i primi mesi del 1287) segnò il suo nuovo modo di poetare. Se le primissime rime risentono del guittonismo quelle riconducibili a questi mesi si rifanno allo stilnovo bolognese, come la canzone Donne che avete intelletto d'amore della Vita Nuova, menzionata in seguito in modo particolare nel Purgatorio. In una canzone del Guinizzelli Dante poteva trovare l'assimilazione della donna alla stella – donna a guisa di stella lo innamora si legge al verso 20 della canzone Al cor gentile reimpara sempre amore. Come la stella dà valore alla pietra preziosa che brilla per la luce del sole, a differenza del fango, così la donna fa innamorare il cuore gentile. Questa è la metafora su cui è composta tutta la canzone. Il giovane Dante si è trovato dinnanzi a due problemi, uno storico-scientifico e l'altro poetico- letterario. Il volgarizzatore del Roman de la Rose intuì la distanza e la novità sul piano espressivo della canzone di Guido Guinizzelli dalle precedenti composizioni e ne trasse quelle conseguenze sul piano formale e dottrinale del comporre "rime d'amore", di cui la futura canzone Donne che avete intelletto d'amore avrebbe annunciato il programma compiuto nella sua prima tappa. Tuttavia fu decisiva la comprensione dei versi 41-43 della canzone:«Splende 'n la 'ntelligenza del cielo/Dio criator più che ['n] nostr'occhi 'l sole;/ella intende suo fattor oltra 'l cielo». In questi versi vide che al tempo in cui Guinizzelli collocava la sua canzone c'era una stella dell'ottava sfera, la cui longitudine, espressa secondo il moto della nona sfera, diceva il tempo di un evento fondamentale per la storia cristiana, diceva cioè il tempo simbolico del Natale di Cristo a creatione mundi. Allora si determinò agli occhi del giovane poeta (ventidue anni) un progetto scientifico grandioso. Ricostruire il catalogo delle stelle alla base dei racconti della cultura antica e trovare le informazioni storiche per convertire gli intervalli temporali in date del calendario cristiano e, infine, trovare con l'invenzione poetica il modo di raccontare una vicenda amorosa con l'indicazione di una data necessaria per quella conversione cronologica. Il compito che Dante si era assunto comportava innanzi tutto lo studio della cronologia astronomica delle varie ere che trovò nel primo capitolo del manuale di Alfargano, Elementa astronomiae, testo che gli permise anche una accurata conoscenza della sfera celeste e dei moti del Sole e della Luna. L'evento la cui data doveva essere trovata era quello del Natale, e Dante giunse alla soluzione e la espose nella Vita Nova sotto la figura del saluto di Beatrice, una vera e propria salutatio angelica, come abbiamo già esposto, collocando la morte di Beatrice nell'anniversario della morte del profeta Muhammad.
Si tenga presente che la morte del Profeta è un evento storicamente datato, mentre non viene detto nei Vangeli se non in modo approssimativo il tempo della nascita e della morte di Gesù. Il ricorso a quella data e non ad altre di altri eventi storici, si imponeva proprio per il legame, espressamente dichiarato nel Corano e nelle tradizioni islamiche, alla rivelazione dell'arcangelo Gabriele.
Per Dante l'angelo fu «la prima cosa e lo primo secreto» rivelato dall'imperator dell'universo. Egli fu quel messaggero «che venne a Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanator celestiale», come è precisamente detto nel Convivio. Che la Vergine avesse tredici anni forse si può trovare in qualche apocrifo dei Vangeli, ma che sia stata qui precisata l'età significa che la sequenza sessagesimale per determinare il tempo simbolico dell'annuncio a Maria rispetto ad una determinata origine temporale, comincia con il numero tredici. A riscontro di ciò si osservi che la preghiera di San Bernardo consta di tredici terzine per un totale di trentanove versi. Possiamo a questo punto affermare che la sequenza numerica sessagesimale 13,39,0 mesi applicata ad una determinata origine temporale ci porta al tredicesimo mese dopo l'Annunciazione. Il primo testo in cui occorre la sequenza 13,39,0 è rappresentato dal Cantico delle creature di San Francesco con le occorrenze di Altissimo ai versi 1,3,9,26.
La ricerca di documenti della cultura islamica si impose pertanto all'interno dello stesso percorso intellettuale del poeta e del suo progetto e non può essere considerata come il frutto di una curiosità per la novità suscitata da una lettura occasionale di un testo di cultura islamica, come potrebbe essere il Libro della scala.
Fin quando gli studiosi non raccoglieranno tutti i documenti latini relativi all'Islam e tra questi quelli che Dante poteva avere avuto accesso non possiamo escludere che per l'attuazione del suo progetto fu necessaria solo la conoscenza della Collectio toledana di Pietro il Venerabile e la biografia del Profeta Muhammad, presente nella Cronaca Generale di Goffredo da Viterbo, cronista di Federico Barbarossa, edita per la prima volta da Enrico Cerulli.

continua.....


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